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«Voi ci avete rubato i poderi!»: una lite tra cispadani e marocchini in “Canale Mussolini” di Pennacchi

Ma soprattutto era pieno di questa gente qui dei monti Lepini e del Lazio: Sezze, Cori, Norma, Sermoneta, Bassiano, Priverno, Sonnino e poi della provincia di Roma e della Ciociaria, Alatri, Ceccano, Ferentino, Rieti, Viterbo. Tutti venuti qui a lavorare, e quelli dei monti Lepini – quando dopo un po’ di chiacchiere i miei zii hanno detto finalmente chi erano – tutti subito con il dente avvelenato. Come saputo difatti che non eravamo operai come loro sui cantieri o sui canali, ma coloni venuti a risiedere stabilmente nei poderi già costruiti e bonificati da loro, manca poco e si ripigliano il posto sulla panca che ci avevano lasciato prima: «Cispadani di qua! cispadani di là!» hanno cominciato.
Lì per lì i miei zii non hanno capito: «Ma che vorranno dire con questo cispadàn?». E mio zio Iseo ha proprio chiesto piano all’orecchio a mio zio Adelchi, che aveva studiato: «Casso signìfichelo cispadàn?».
«Casso vòtu che ne sàpia mì?» Per non restare indietro però – perché a mio zio Adelchi, ma diciamoci la verità, un po’ a tutti i Peruzzi, di restare indietro non gli è mai piaciuto con nessuno – e capito comunque che questo “cispadani” non doveva essere, nei loro intendimenti, esattamente un complimento, gli ha detto lui subito: «Ma bruti marochìn, casso vulìo da nantri?».
«I poderi, voi ci avete rubato i poderi!»
Ora però bisogna dire che qualche minuto prima – prima che si scaldassero gli animi con questa storia dei cispadani e che quelli ci riconoscessero, o credessero di riconoscerci nei presunti ladri dei loro ancor più presunti poderi – c’era già stata un’altra piccola discussione su questa Littoria e sui suoi tempi di costruzione. E uno di questi dei monti Lepini – uno di Sezze – aveva detto con scherno, lasciando capire di non essere esattamente un fascista della prima ora: «Sta bene Mussolini a volerla venire a inaugurare a dicembre. E che inaugura, le ranocchie?».
Zio Pericle s’era risentito allora, e aveva detto: «Non star parlare acsì. Se il Duce ha detto che a dicembre l’è finida, a dicembre la sarà finida. Firmato Pericle Peruzzi, orcocàn» e aveva pure sbattuto la mano sul tavolo.
«Ah, va bene! non ti arrabbiare» avevano fatto subito queglialtri cambiando discorso – anche perché in quel momento stava proprio passando davanti alla panca la ronda di due carabinieri – mentre mio zio Pericle però già si diceva da solo: «Ma che casso m’è vegnù da dire?». Pure i fratelli-Adelchi ed Iseo – lo avevano guardato con la faccia stralunata come a dire: «Pericle!». Non gli avevano detto niente ovviamente, perché quello era Pericle ed era meglio non dirgli niente, però lo avevano guardato strano e lui aveva capito: «È meglio che sto zitto va’, che la figura l’ho già fatta».
Quando però quelli hanno detto «Cispadani!» e mio zio Adelchi «Marocchini!» e quelli di nuovo «Ladri di poderi!», mio zio Pericle non ci ha visto più, ci ha messo insieme l’incazzatura per l’inaugurazione decembrina – «A fémo tuto un conto, va’» – s’è alzato in piedi e al di là del tavolo, al sezzese che aveva proprio di fronte, ha detto: «Ritira la parola, marochìn!».
«Ma che ritiro? Il cazzo che ti si frega ritiro, cispadano d’un polentone.»
«Pam!» mio zio è partito con un cazzotto e s’è tuffato di là dal tavolo. Subito ci si è lanciato anche zio Iseo. Un po’ di sezzesi si sono buttati su zio Adelchi. Un gruppo di coloni come noi – sbarcati pure loro da queste parti pochi giorni
prima, e in visita anche loro al cantiere misterioso di Littoria – avendo sentito strillare cispadani di qua e marocchini di là e nutrendo il sensato sospetto che la questione potesse in qualche modo riguardarli, si sono buttati in mezzo pure loro. Sono arrivati i pecorai di Guarcino però – dalla parte degli altri – ed è stato un casino generale.
«Fermi!» gridavano gli osti: «Fermi che arriva la Forza», ossia i carabinieri.
«Fermo un corno» gridavano i velletrani, e giù botte pure loro addosso ai nostri.
Mio zio Adelchi – che nel corpo a corpo non era mai stato così bravo come mio zio Pericle, e sempre, tutte le volte che s’erano presi, le aveva prese lui – non s’è preoccupato dei cazzotti che gli arrivavano da ogni parte sul groppone e nemmeno ha pensato a restituirli se non con qualche zampata o pugnettino di circostanza. Lui l’unico pensiero che aveva in mente durante questa temperie era: «La bicicletta! Non vorrei che con questo casino qualcuno mi fregasse la bicicletta». E s’è diretto lentamente là, con la folla degli assalitori che lentamente – sgrugnandolo – lo seguiva.
Appena però ci è arrivato e ha sentito la canna della sua bicicletta tra le mani, allora – e i miei zii lo hanno raccontato per anni – allora il Leone di Giuda si è scatenato. Pareva Sansone con la mascella d’asino – Achille sotto le mura di Troia, preso dalla sua ubris – e vorticava quella bicicletta intorno a sé come una spada celeste, facendo strage dei nemici e terrorizzandoli ulteriormente con lo strepito delle urla aguzze: «Ladro a mi? Ladro de podéri a mì? Andè via, marochìn mangiamerda marocàssi! che Dio ve stramaledìssa tuti quanti!».
E quelli indietreggiavano. Lei doveva vedere come indietreggiavano. Certe biciclettate tirava quel giorno – ossia quella notte – mio zio Adelchi, che manco con Durlindana in mano. Tanto che zio Pericle – vedendolo da lontano mentre lui andava spartendo a destra e manca calci, cazzotti e coltellate secondo la bisogna – s’era detto: «Ma varda tì l’Adelchi». E s’era sentito un moto nel cuore proprio come quella volta che voleva sparare al fattore degli Zorzi Vila – «At cópo! Dove sì ch’at cópo?» – un moto di profondo amore anche per questo fratello qua: «L’è dei Peruzzi, l’è mè fradèo quel là!». E quando a un certo punto ha perso il coltello e doveva fare oramai solo coi pugni contro tutta quella ressa, ha copiato dal fratello, ha schiodato una mezza palanca da un tavolo e ha cominciato a mulinare anche lui con quella, recuperando lo svantaggio.
«La Forza, la Forza!» s’è messo però a strillare a un certo punto un oste e si sono visti quei due carabinieri e un po’ di camicie nere della milizia che arrivavano correndo.
Il tumulto s’è sedato all’istante. I miei zii hanno fatto finta di niente, cercando solo di sgattaiolare con le loro biciclette. Mio zio Adelchi ansimava. Ogni tanto ruggiva un «Marochìn!», la bici ancora a mezz’aria.
«Tasi, bestia» gli diceva ridendo zio Iseo: «Vòtu farne carcerare?» mentre se lo tirava via, facendogli finalmente posare le ruote della bicicletta sulla terra.
Uno dei sezzesi – andandosene anche lui – senza farsi sentire dai carabinieri disse a zio Pericle: «Ci rivediamo».
«Sempre pronti» rispose piano piano, ma netto, mio zio: «Firmato Peruzzi, podere 517, Canale Mussolini. A disposisión».
Bel match e danni lievi, comunque. Giusto qualche graffio. Coltellate di striscio. «Canchero» disse però poi la moglie a zio Pericle nel letto quando – facendo l’amore – ad ogni suo minimo gesto o carezza, lui non faceva che fremere: «Non star tocàrme là, non star tocàrme qua, che me fa màl».
«Canchero d’un tacabrìghe» allora, graffiandogli più forte la schiena. Dopo però, calmata e prima di dormire: «E a mì, domàn, am tocherà de novo da dovér ramendàr ‘l pastràn» il pastrano, che s’era preso lui il grosso delle coltellate. Ma anche quelle di zio Pericle dovevano essere andate tutte a segno così, senza danni gravi per i marocchini.

Antonio Pennacchi (foto: Marco Tambara, 2010)

Tommaso Conti ricorda Antonio Pennacchi

Tommaso Conti, ex sindaco di Cori e gran conoscitore della storia dei Monti Lepini e dell’Agro Pontino, ha commentato la recente scomparsa dello scrittore Antonio Pennacchi (71 anni) con parole dense di significato.

«Antonio Pennacchi era un grande scrittore. Indubbiamente. È stato lo scrittore dell’epopea della bonifica. Vi ha costruito un’epica. Una grande narrazione. Mi ha spinto a leggere la storia di fondazione di una città a me invisa, Latina. Ci stavamo reciprocamente simpatici. Però per costruire quella storia si costruì un nemico. I marocchini. I marocchini eravamo noi. Gli abitanti dei centri dei Lepini. Che stavamo qui dalla notte dei tempi. Che vivevamo ai margini della palude. Che avevamo imparato a convivere con le sue asprezze. Che ci avventuravamo solo di notte. Mio nonno mi diceva: “Per andare a Nettuno prima della bonifica attaccavo il carretto alle otto di sera, quando sentivo il fischio del treno a Torretta e arrivavo alle 5 del mattino. Di giorno la palude era impraticabile, specie d’estate. E ripartivo la sera dopo”. Eravamo contadini, migranti, pastori. Ma avevamo già il Comune, l’ospedale, la pretura, le chiese, i templi pagani, i fotografi, gli ingegneri aeronautici, la filodrammatica. Non eravamo marocchini, anche se a me i marocchini non hanno fatto nulla, purtroppo a qualche ciociara sì. Avevamo delle comunità organizzate, vive, attive. Ed eravamo socialisti prima dell’avvento del fascismo. Abbiamo anche partecipato ai lavori di bonifica, fornendo buona parte della manodopera, che partiva con le biciclette la mattina a scuro dai centri dei Lepini e se ne tornava a casa bicicletta a mani la sera a lumo e lustro. E che al momento di insediare le case coloniche ce ne siamo tornati a casa, nei paesi dove si svolgeva una vita civile e ordinata, no a facci magnà dai tafani pella palude. Eravamo coresi, sezzesi, normiciani, sermonetani. No marocchini. Eravate voi Cispadani, a noi ci avete trovati. Ciao Antonio, eri troppo simpatico oltre che un grande scrittore».

Che caciara! (di Patrizia Carucci)

I coresi hanno sempre vissuto lavorando la terra, una comunità radicalmente contadina, non sono mai stati pastori.

Dagli inizi del Novecento però si sono insediati in pianta stabile diverse famiglie dedite alla pastorizia come i Giansanti, i Toselli, Lenzini, Cipriani, Tagliaferri, Battisti, Raponi, Giordani, Fontana, Restante, Caprara, Marchioni. Tutti sono stati pastori transumanti, provenienti dai paesi della Ciociaria, Supino, Morolo, Carpineto, Guarcino, Gorga, Filettino, che giunti sul territorio corese sono diventati per lo più stanziali grazie al buon clima e l’abbondanza di pascoli.

La transumanza è una pratica di migrazione stagionale di greggi, mandrie e pastori in differenti zone climatiche lungo le vie seminaturali dei tratturi. In Italia viene ancora praticata nelle regioni del Centro e del Mezzogiorno e anche nell’area alpina, in Val Senales e in Alto Adige, dove lo spostamento avviene in verticale col cambio quota dell’alpeggio a differenza del Centro-Sud dove invece i pastori si spostano in orizzontale Est-Ovest.

Nel 2019 l’Italia ha ottenuto un grande risultato: ha presentato la candidatura della transumanza nel patrimonio immateriale dell’ Unesco… e ha vinto!

La proposta è partita dal Molise e l’Italia è stata capofila nel progetto al quale hanno partecipato anche la Grecia e l’Austria. Dalle valli dell’Alto Adige al Tavoliere di Puglia, gli oltre 60 mila allevamenti con 7,2 milioni di capi ovini sono una ricchezza che finalmente ha trovato un riconoscimento internazionale.

Quante volte facendo confusione siete stati ripresi con:
“Ahooo… ma che è ssa CACIARA” oppure “smettàtela de fa CACIARA!”

La parola CACIARA deriva da “caciaia”, cioè il locale dove i pastori producono e lasciano stagionare il formaggio. Le caciare sono diffuse nell’Italia Centrale fra Lazio, Abruzzo e Molise. Si tratta di strutture semplicissime costruite con la nuda pietra senza l’ausilio di malte o cementi, o con assi di legno (in foto).

Ai pastori serviva un luogo pratico da poter costruire con facilità anche per riporre gli attrezzi, rifugiarsi in caso di maltempo e far stagionare il formaggio.

Ma cosa c’entra il formaggio col chiasso? Ebbene, spesso i pastori che raccoglievano il latte per la produzione casearia pare che litigassero fra loro per questioni di appropriazione indebita delle scorte, sbagli delle miscele di latte che conferivano alla caciaia, errori nei pagamenti. Da ciò nascevano discussioni accese e risse anche violente. Da qui è scaturito il modo di dire “stíte a ffa na caciara”. Non solo… nella caciara i formaggi venivano “schiaffeggiati” e rivoltati sulle assi di stagionatura e ciò produceva molto rumore. Da qui la definizione di “caciara” come luogo chiassoso.

Nell’Agro Pontino bonificato la caciara stava a Pantanaccio. Lì vicino c’era l’unica osteria di Littoria dove i pastori provenienti dalla Ciociaria, assetati, si rifocillavano e dai a far caciara… come racconta Pennacchi nel suo famoso romanzo “Canale Mussolini”.

Patrizia Carucci, amministratrice del gruppo Cori Mé Bbéglio

Pubblichiamo alcune fotografie di “capanne di muro” nel territorio di Cori, ricoveri utilizzati (anche come caciare) dai pastori transumanti provenienti dalla Ciociaria. Nella maggioranza dei casi avevano base cilindrica e tetto conico. Le fotografie sono di Pietro Guidi (anche lui amministratore del gruppo Cori Mé Bbéglio) e Nicola Cecchi, che ringraziamo per la collaborazione.

Fotografia di Pietro Guidi
Fotografia di Pietro Guidi
Fotografia di Pietro Guidi
Fotografia di Nicola Cecchi. La capanna si trova tra gli ulivi in località Perunio.
Fotografia di Nicola Cecchi
Il ricovero localizzato su Google Maps (al centro sulla destra tra gli ulivi)

Un barbiere e ciabattino in Agro Pontino

Mio zio Dolfin era barbiere e ciabattino. Faceva certe scarpe che erano la fine del mondo. Ti toccava i piedi, li guardava e ritoccava, ti pigliava la misura con il centimetro e ti faceva due guanti sul piede, una cosa precisa precisa. Ma quante scarpe nuove vuole che ci facessimo noi morti di fame al mio paese? E chi vuole che – fatto pure una volta un paio di scarpe nuove – si permettesse poi di consumarle per doverle risolare? La gente da noi camminava scalza, come abbiamo poi camminato scalzi per tutto l’Agro Pontino fin che nel 1960 non è arrivato il benessere. E non è neanche da dire che tu quelle scarpe nuove te le mettevi solo il giorno del matrimonio e poi quello del tuo funerale – dimodoché, portandotele via con te, tuo figlio quando si sposava era costretto a farsi fare le sue – poiché essendo nel Basso-Rovigotto praticamente tutti ferraresi, noi in quanto tali abbiamo pure il sacro rito e costumanza che il morto va via scalzo. Lei non vede in nessuna veglia funebre o camera mortuaria di Ferrara e Codigoro – ma pure a Pontinia e Borgo Hermada – un morto con le scarpe nella bara. Sempre scalzo. Sia maschio che femmina. Coi calzini puliti e nuovi di zecca. E pure con la cravatta al collo. Pettinato bene e tutto rasato e – dentro le tasche che la gente non vede – pure un po’ di soldi, le sigarette, l’accendino o i fiammiferi se fumava, e prima di chiuderlo col coperchio della cassa, la moglie e i figli gli mettono una bottiglietta di grappa e qualcosa da mangiare. Sono gli usi nostri. […]

In ogni caso dalle parti nostre i morti – pur con qualche soldo – se ne vanno però scalzi. Scalzo sei entrato e scalzo te ne rivai. Veda un po’ quindi quanti affari poteva fare dalle parti nostre un ciabattino provetto – un artista delle scarpe – come mio zio Dolfin. E pure come barbiere – povero zio Dolfin – cosa vuole che guadagnasse? Con la fame che c’era, secondo lei la gente andava a farsi fare la barba dal barbiere? Ma quelli piuttosto se la mangiavano, la loro barba. Lui lo chiamavano, appunto, solo quando c’era da fare la barba a un morto. Se no s’arrangiavano da soli. E mia zia se l’era sposato – che lei sì la sapeva lavorare la terra, lei era la seconda, ossia la prima delle femmine, venuta al mondo dal grembo di mia nonna l’anno dopo zio Temistocle e l’anno prima dello zio Pericle – se l’era sposato per amore, perché aveva una voce canterina e sapeva raccontare mille storie, anche le più strampalate, facendogliele però credere vere.

[tratto da Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010]

“I poderi erano tutti uguali”

I poderi erano tutti uguali. O meglio, in realtà la parola podere significherebbe l’intero terreno assegnato ad ogni famiglia di coloni, che variava da dieci a quindici o anche venti ettari di terra, a seconda della fertilità e della possibilità d’irrigazione. Ma noi da subito abbiamo cominciato a chiamare “podere” il casale dove abitavamo; neanche la stalla – che pure era attaccata – o i fienili o i magazzini, ma proprio la casa. Quello era il podere perché sopra – sul fronte che dà verso la strada – su di un angolo al secondo piano, scritto a lettere alte di pietra, c’era: “O.N.C. – Podere n. 517″ – Anno X E.F.“.
O.N.C. vuol dire Opera nazionale combattenti e Anno X dell’Era Fascista vuol dire 1932, dieci anni dalla marcia su Roma, inizio di un’era millenaria che non doveva finire più. Prima c’era stato il mondo di prima, con il disordine, l’ingiustizia e il disprezzo dell’Italia da parte di tutti; adesso s’era aperta un’era nuova, dove il nome di Roma avrebbe trionfato e imposto la sua pace su tutto il mondo. O almeno questo era quello che dicevamo orgogliosi. Sul casale c’era scritto “podere” a lettere di pietra bianca, ripeto – belle grandi sull’intonaco celeste – e quindi noi i casali li abbiamo chiamati allora e per sempre “poderi”.

Il nostro stava – come sta tuttora – sulla Parallela Sinistra, la strada che costeggia parallelamente il Canale Mussolini nel tratto che da ponte Marchi attraversa l’Appia prima e la Provinciale poi. […]

I poderi – ossia i casali – erano tutti celesti. A due piani. Col tetto a due falde e capriate di legno. Tegole rosse alla marsigliese. Grondaie per la raccolta dell’acqua e discendenti. Sopra il tetto il comignolo grosso – tondo – in cemento prefabbricato, uguale per tutti. Le finestre nuove di zecca erano verniciate di verde e non avevano persiane ma, all’esterno, zanzariere – reti metalliche a maglia finissima che impedivano l’accesso agli insetti – poi i vetri e dietro, all’interno, gli “scuri” di legno verniciati chiari, pannelli che richiusi non lasciavano filtrare la luce.

[tratto da Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010, pp. 205-206]

El prìvy

Comunque quella volta a un certo punto questi americani si misero a fare: “Tel prìvy, tel prìvy” e noi non capivamo. Rossoni allora – che come lei sa l’America era casa sua – disse: “El prìvy xè il cesso”, e anche noi da quel momento cominciammo a chiamarlo “prìvy” e ancora ce lo chiamiamo adesso; anche se naturalmente non c’è più e abbiamo tutti il bagno in casa. Fu zia Bìssola la prima che – una volta che c’era un ospite, non so chi fosse, forse il medico o il prete – dovendo improvvisamente andarci ma volendo motivare un po’ signorilmente la sua assenza, disse: “A vàgo int’el prìvy”. […]

E da allora in poi – prima per gioco e poi per davvero – per tutti i Peruzzi il cesso è sempre stato il prìvy e stava dietro, staccato dalla casa, come si faceva allora in tutte le zone di campagna. Mica solo in Agro Pontino. In tutto il mondo e le ragioni erano igieniche. Non essendoci disponibilità d’acqua corrente nelle case – disponibilità legata evidentemente all’energia elettrica – non c’era neanche la possibilità di smaltire in condotte o fognature i rifiuti che ne derivavano. Lo smaltimento doveva farsi quindi solo con i pozzi neri – scavati direttamente sotto la latrina – in cui i liquami ristagnassero per essere poi svuotati una o due volte l’anno. Non era perciò opportuno che le persone risiedessero stabilmente – ossia vivessero, mangiassero e dormissero – proprio sopra il pozzo nero. Per questo lo si metteva fuori, anche se nelle zone più povere e arretrate – come in Altitalia nei casoni – non c’era proprio nessun prìvy, o latrina che fosse, e nemmeno il pozzo nero, e la gente andava di volta in volta in mezzo ai campi.

[tratto da Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010]

Pipistrelli e pipistrellai

Non c’era il Ddt allora, non c’era niente. Dovevi solo corrergli appresso con la paletta alle zanzare. O meglio: c’erano i pipistrellai – grandi torrette di legno piene di buchi rotondi, messe un po’ qua e un po’ là per tutta la palude in via di bonificazione – in cui i pipistrelli facevano il nido. Ce li avevano portati da tutt’Italia perché il pipistrello è ghiotto di zanzare e le prende al volo meglio di un caccia intercettore. Un F-16. Alle donne facevano un po’ schifo – non è tanto bello il pipistrello, diciamo la verità, e se ti si attacca ai capelli non si stacca più – ma appena hanno cominciato a impiantarsi da soli i nuovi nidi sotto le cantinelle dei cornicioni dei poderi o sulle capriate d’ogni stalla, la gente gli ha fatto gli altarini, gli ha steso i tappeti all’ingresso e li trattava meglio dei bambini in fasce. Le donne mancava poco gli portassero il latte coi biscotti e se solo ti vedevano con la mazzafionda in mano davanti alla stalla – il pomeriggio, quando loro dormono attaccati in fila a testa in giù nell’angolo più buio della capriata – ti schiacciavano di botte più che a una zanzara. E’ un animale sacro in Agro Pontino e guai ancora adesso a fargli torto.

Però non era Dio, il pipistrello. Da solo non ce la poteva fare in questo universo di zanzare anofeli.

[tratto da Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010, p. 208]

Il DDT e la lotta alla malaria

Questa è stata in Agro Pontino la lotta antimalarica fino a tutti gli anni Quaranta e i primi Cinquanta – quando continuavamo ancora ogni tanto a prendere la malaria – finché non è arrivata la Seconda guerra mondiale con gli americani. Allora sì che è davvero finita la malaria, perché se al resto d’Italia hanno portato come si suol dire libertà e democrazia, a noi – che di libertà non ne avevamo mai vista e masticata tanta neanche prima del fascismo, anzi pure peggio – a noi gli americani hanno portato soprattutto il Ddt. Loro lo avevano appena inventato e non lo avevano ancora sperimentato su larga scala. Così quando sono arrivati qui hanno detto: “Provémolo qua!”. Hanno riempito un paio di Dakota – certi apparecchioni loro – con tutti questi bidoni di Ddt e avanti e indietro per l’Agro Pontino finché non lo hanno allagato tutto quando di Ddt. L’esperimento è riuscito – “Orca, se l’è riuscito!” deve aver detto a Truman il generale suo – e non s’è più vista una zanzara anofele in tutto il Lazio e neanche s’è più visto un ammalato di malaria, nemmeno a pagarlo oro. A Velletri hanno dovuto chiudere il reparto. […]
Adesso il Ddt è vietato in tutto il mondo. Perché non è biodegradabile. Resta nel ciclo alimentare e non si dissolve più. Lo hanno trovato perfino nel tessuto adiposo delle foche al Polo Nord. Allora hanno detto: “Basta col Ddt, non si può più fare”. Ma a noi ci ha salvati dalla malaria e se non era per il Ddt, noi non ci vivevamo in cinquecentomila su questo territorio. Sarebbe ancora un deserto paludoso-malarico e noi saremmo dovuti tornare – prima o poi – nei nostri paesi d’origine, da cui ci avevano scacciato a calci. Ora a me dispiace per la foca del Polo Nord – perché ci vuole il giusto rispetto per tutti, pure per le foche – però, se lei permette, è meglio che muoia una foca al Polo Nord o è meglio che moriamo io e i miei figli qui?

[tratto da Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010, pp. 211-212]