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Conversazioni pontine: Dante Ceccarini

Dante Ceccarini è medico chirurgo e pediatra, ma anche poeta in dialetto sermonetano e autore di importanti studi sul dialetto locale. Interessati da quest’ultima attività, intraprendiamo con lui una conversazione.

(Antonio Saccoccio) Buongiorno Dott. Ceccarini, lei è un medico, ma da decenni è attivissimo in ambito culturale. È noto soprattutto per le sue poesie in dialetto sermonetano, anche se ne ha composte anche in lingua italiana. Da dove nasce la sua passione per la poesia dialettale?

(Dante Ceccarini) Buongiorno. Io sono nato a Sermoneta ed ho vissuto nel paese lepino buona parte della mia vita. Quindi, sin dalla nascita, sono stato immerso in questa “lingua del cuore” che è il dialetto, sia in ambito familiare che nell’ambito degli amici, dei vicini di casa e dei conoscenti. Sono stato sempre affascinato dalla bellezza e dalla concisione della parola dialettale e dagli innumerevoli modi di dire dialettali che servono, come “utensili glottici”, per esprimere sensazioni, stati d’animo, situazioni di vita, ecc.
L’occasione ultima che mi ha spinto, poi, a scrivere libri in dialetto è stato il reperimento di un piccolo glossario di termini sermonetani, scritto da un signore che ora non c’è più (Candido Stivali): da lì sono partiti i miei dizionari e gli altri libri in dialetto.

(A.S.) Lei ha ideato anche un concorso di poesie in dialetto rivolto a bambini sermonetani. Ci racconta quest’altra esperienza?

(D.C.) Io sono convinto che, per tutelare, valorizzare e difendere il dialetto, bisogna rivolgersi alle nuove generazioni, facendo conoscere loro i termini dialettali direttamente dalle persone più anziane. Riscoprire, cioè, antichi termini dialettali in un’opera che ho chiamato di “archeologia dialettale”. Naturalmente affiancando il dialetto alla lingua italiana, senza avere la pretesa di sostituirla, anzi cercando di scoprire le influenze reciproche tra lingua nazionale e lingua locale. Per far ciò bisogna rivolgersi ai bambini e ai ragazzi. Quindi nel 2010 ebbi l’idea di fare un Concorso di poesie in dialetto sermonetano, dal titolo “Sermonet’amo”, rivolto proprio ai bambini e ai ragazzi delle scuole del territorio di Sermoneta (la IV e V elementare, e le 3 classi della scuola media). In ciò sono stato supportato dalla mia Associazione culturale, l’Archeoclub di Sermoneta (di cui ero Presidente in quel periodo), da una serie di altre Associazioni del Territorio, dal Comune di Sermoneta e, naturalmente, dal plesso scolastico “Donna Lelia Caetani” di Sermoneta. I bambini e i ragazzi preparavano per tempo le loro poesie in dialetto, naturalmente aiutati dai genitori, nonni, zii, conoscenti, ecc., e alla fine dell’anno scolastico veniva organizzata una bella cerimonia di premiazione all’interno della scuola (il primo anno all’interno del castello Caetani). I premi consistevano (e consistono) in buoni acquisto libri e materiale scolastico, sia per il singolo studente che per la classe. Dal 2010 abbiamo organizzato 8 edizioni del Sermonet’amo, e i ragazzi hanno scritto, in questi anni, più di 1000 poesie in dialetto. Nel 2020 si sarebbe dovuta tenere la nona edizione, ma, a causa della pandemia, è stata rinviata: speriamo di tenerla nel 2021. Alcuni ragazzi sono stati premiati anche in ambito regionale.

(A.S.) Non solo creatività, ma anche studio e ricerca. Lei ha scritto dizionari sermonetano-italiano e italiano-sermonetano.

(D.C.) Ho scritto nel 2010 il Primo Dizionario Sermonetano-Italiano e qualche anno dopo il Secondo Dizionario Sermonetano-italiano ed il Primo Dizionario Italiano-Sermonetano. In questi 3 Dizionari sono riportate migliaia di parole dialettali, ma il mio lavoro di studio e ricerca non è finito lì. Giornalmente, aggiorno i vari dizionari con altri termini dialettali (e relative traduzioni), intervistando le persone più anziane di Sermoneta, ma anche le persone di altre età. Ciò perché il dialetto, come tutte le lingue, muta nel tempo, si arricchisce di nuovi termini ed altri ne perde. Perciò il dialetto sermonetano degli anni ‘20, ‘30 è diverso da quello del dopoguerra, da quello degli anni ‘70 e ‘80 e da quello di oggi. Da ciò nasce la necessità di intervistare e di apprendere da persone di diverse fasce di età, anche dai giovani. Come dicevo, aggiorno continuamente i vari Dizionari, nei files del mio computer, e sono arrivato a contare circa 20000 termini dialettali. Inoltre ho scritto anche un libro sui Proverbi, modi di dire, filastrocche, maledizioni sermonetane, messe a confronto con analoghe espressioni dei paesi dei monti Lepini, del Lazio e con agganci anche in ambito nazionale. Anche in quest’ultimo caso, aggiorno continuamente i files del computer con nuovi proverbi, modi di dire ecc.

(A.S.) Spesso voi poeti dialettali date vita a eventi collettivi, in cui recitate i vostri componimenti. Ne nascono momenti di grande condivisione per la comunità lepina e pontina.

(D.C.)  Sì, è così. C’è un grande fiorire di poesia dialettale sui monti lepini e ci sono molti studiosi di dialetto che, pur mantenendo la passione dello studio del proprio dialetto, hanno “virato”, come me, verso la poesia dialettale e in lingua italiana. Prima della pandemia c’era un susseguirsi di incontri poetici, maratone dialettali, concorsi di poesia dialettale, ecc. in tutti i paesi dei monti lepini (da Cori a Sezze, da Bassiano a Norma, da Sermoneta a Maenza, ecc.). Con la pandemia gli eventi in presenza naturalmente si sono molto affievoliti ed arrestati, ma stiamo facendo degli incontri poetici su vari blog, pagine facebook ed altro. Speriamo di riprendere a pandemia finita.

(A.S.) Ultimamente si è dedicato anche alla poesia italiana. Quali differenze nel comporre versi in dialetto e nella lingua di Dante e Petrarca?

(D.C.)  Sono già 6-7 anni che scrivo anche poesie in italiano. Ma contemporaneamente anche in dialetto. Certe volte le scrivo prima in italiano e le traduco in sermonetano, altre volte le poesie nascono direttamente in sermonetano e poi le traduco. La differenza tra lo scrivere in italiano e lo scrivere in dialetto è difficile da spiegarsi. Il dialetto mi dà una connotazione ed una emozione più intima (o intimista), specialmente riguardo ad alcuni temi, come l’amore, il ricordo, la nostalgia (o dolore del ritorno, in questo caso inteso come dolore del ricordo). L’italiano mi dà una dimensione più ampia, più universale ed una possibilità di espressione (nel senso della varietà di termini e significati più ampia e più profonda). Con il dialetto posso usare circa 20000 lemmi, con l’italiano qualche centinaio di migliaia. In breve, il significato è il medesimo (o quasi), mentre quello che varia è il significante.

(A.S.) La sua professione di medico e pediatra esercita un’influenza sulla sua attività poetica?

(D.C.) Senz’altro la mia professione di medico e pediatra è importantissima, direi essenziale, per la mia attività poetica. Con il contatto quotidiano con i bambini che curo (e per contatto intendo non solo l’atto medico, ma anche il parlare, lo scherzare, l’immedesimarmi nel bambino che ho di fronte) ho una ispirazione continua dal punto di vista poetico. L’essere bambino è di per sé una forma di poetica. Inoltre l’essere medico, e quindi parlare con i genitori, i nonni, i parenti, mi aiuta molto nello scoprire parole dialettali, espressioni, modi di dire, proverbi ecc. Per cui, con alcuni di questi parenti, mi esprimo (e ci esprimiamo) solo in dialetto.

(A.S.) Lei è prima di tutto un sermonetano. Ha idee da proporre per il presente e il futuro di Sermoneta o più in generale dellAgro Pontino e dei Monti Lepini?

(D.C.) Ho un’idea (e una speranza) fondamentalmente. A pandemia finita, organizzare un grande evento, un Concorso Internazionale di Poesia a Sermoneta, con l’aiuto del Comune di Sermoneta e della Fondazione Caetani. Un concorso formato da tante sezioni (poesia in italiano, poesia in dialetto, poesia giovani, videopoesia, sillogi e libri, ecc.). Ma il Concorso, con una Giuria qualificata, può estendersi anche a tutti i monti Lepini e non solo Sermoneta, con la collaborazione e l’unità dialettale di tutto il territorio. Speranza vana, utopia? Non so, vedremo. Lo scopriremo solo vivendo.

(A.S.) La ringraziamo per la sua disponibilità e speriamo di poter collaborare ancora per trasformare questa sua speranza in realtà.

Dante Ceccarini con Osvaldo Bevilacqua durante le riprese della trasmissione “Sereno Variabile” (Rai Due)

* I libri di Dante Ceccarini sono reperibili presso la Libreria Candileno Punto Einaudi al Sermoneta Shopping Center oppure presso La Mia Libreria in piazza della Libertà 35/37, a Latina.

Conversazioni pontine: Angelo Fàvaro

Angelo Fàvaro è da oltre venti anni docente di materie letterarie nei licei della provincia di Latina e Roma ed è anche Professore incaricato presso l’Università “Tor Vergata” di Roma. Ha vissuto a lungo a Sabaudia, città con cui mantiene profondi legami, affettivi e culturali. Ricercatore e scrittore poliedrico, animatore culturale infaticabile e attento ai temi/problemi della contemporaneità, ha organizzato decine di convegni, giornate di studio, eventi nella città pontina e all’estero, sufficiente pensare al Convegno internazionale pirandelliano presso Salonicco o il Convegno internazionale per il quarantesimo anniversario dalla morte di Pasolini a Praga. Approfittiamo della sua disponibilità per una piacevole conversazione.

(Antonio Saccoccio) Buongiorno Prof. Fàvaro, lei è impegnato da decenni a Sabaudia sul fronte artistico e culturale. Partiamo con un risultato conseguito proprio quest’anno: Sabaudia è ufficialmente diventata “Città di Moravia”.

(Angelo Fàvaro) Sabaudia è la cittadina pontina più amata e rinomata dell’Agro, per numerose ragioni, che non è questa l’occasione per eviscerare, sufficiente riflettere sulla sua posizione, sulla sua architettura, sulla ricchezza antropologica e culturale dalla Fondazione ad oggi. Sono onorato e felice di averci vissuto dai miei tre fino ai trent’anni circa, e vi ho ancora domicilio. Sì, dal 2020 Sabaudia è ormai non solo nella vulgata, ma anche formalmente “Città di Moravia”, fra gli altri appellativi o epiteti che potrebbero connotarne la plurima vocazione. Da tempo, tento questa operazione, tutta squisitamente culturale e, finalmente, si è riusciti nel varo di un logo e nella formazione di un brand, per utilizzare la terminologia più esatta, che è stato registrato, presso la Regione Lazio. Adesso, Sabaudia può essere associata alla presenza dell’intellettuale, romanziere, critico Alberto Moravia, alle sue opere, al suo pensiero, al suo impegno ecologico, europeista e latamente umanitario. A trent’anni dalla scomparsa, scopo precipuo e specifico, dopo l’intitolazione di una piazza, è stato quello di continuare a far conoscere, valorizzare e diffondere il patrimonio di pensiero, di civiltà, d’arte e di letteratura contenuto nelle opere e insito, ormai iconicamente, nella figura-persona di Alberto Moravia.

Il logo ideato da Angelo Fàvaro e realizzato da Giovanni La Rosa, donato al Comune di Sabaudia.

(A.S.) Quale nesso fra un luogo, in questo caso Sabaudia, e un autore, Moravia?

(A.F.) Ho un’idea precisa. Io ritengo che ogni opera d’arte nasca in precisi contesti: situazionale, e mi riferisco alla situazione individuale di chi agisce creativamente, alla sua storia personale, a quel momento preciso della sua esistenza nel quale l’opera viene dapprima ideata e poi realizzata; epocale, ovvero storico, politico, sociale dell’epoca nella quale l’opera vede la luce e che ha fortemente sollecitato l’autore; infine, ambientale-naturale, ed è semplice intuire come senza la Roma del fascismo Moravia non avrebbe mai potuto immaginare quel capolavoro che è La romana, o senza l’esperienza dell’otto settembre e dell’autoconfino a Fondi sulle macere, non sarebbe mai stato scritto quello straordinario romanzo sulla guerra che è La ciociara. Egualmente ritengo che dall’esperienza a Sabaudia siano nati alcuni racconti de La cosa e de La villa del venerdì, in parte anche tutta l’ultima produzione dello scrittore, anche se della cittadina pontina non c’è alcun cenno. Inoltre, nel 1980, Moravia stesso aveva dichiarato: «Il mare che amo? Quello del Circeo, quello di Sabaudia, non ancora turistica e non ancora mondana e, particolare importante per chi lavora, distante un’ora e mezzo di macchina da Roma».

(A.S.) Anche se giova rimembrare che il suo primo interesse, rispetto a progetti e convegni, era stato rivolto a Pasolini, se non erro.

(A.F.) È corretto, invero, ho organizzato tre giornate di studi dedicati a Pier Paolo Pasolini, tutte con il medesimo titolo: “Un sordo sottobosco dove tutto è natura…”, nel 2005, nel 2006, nel 2007, ma soltanto della prima sono stati stampati gli atti. Non si potrebbe nemmeno immaginare di parlare di cultura e di letteratura a Sabaudia senza ricorrere a Pasolini, Moravia, Maraini, Bertolucci, Tornabuoni, Siciliano, Schifano, Stanislao Nievo, Emilio Greco, Lorenzo Indrimi, Igor Man, Gabriella Sobrino, ancora oggi Rodolfo Carelli… la lista è ancora lunga.

(A.S.) Esattamente dieci anni fa lei ha curato a Sabaudia un importante convegno internazionale: “Alberto Moravia e gli amici”. Ci può parlare degli esiti di quella giornata di studi, di queste amicizie, anche in relazione al ruolo giocato dalla città di Sabaudia?

(A.F.) Sul lungomare di Sabaudia, c’è una villetta bifamiliare con due grandi finestre, come due occhi, ormai sovente serrati, rivolti alla duna, fra mare e cielo. Osservando dalla strada, il lato destro era stato fatto edificare per Pasolini, il sinistro per Moravia. Entrambi avevano scoperto la cittadina pontina sul finire degli anni Sessanta, e per ragioni differenti ne erano rimasti affascinati: a Moravia sembrava di assaporare qualcosa della “sua” Africa; a Pasolini, invece, pareva di riscoprire qualcosa di umano e di non conformista, nonostante il progetto fosse stato approvato in epoca fascista e la città edificata in poco più di trecento giorni, con una inaugurazione fascistissima. Pasolini fu ucciso proprio poco prima della conclusione dei lavori della bifamiliare, nel 1975; Moravia al contrario vi soggiornò lungamente d’estate, ma anche in primavera e in autunno, raramente d’inverno; quel mattino del 26 settembre 1990, nel quale fu trovato morto nella sua abitazione a Lungotevere della Vittoria 1, a Roma, avrebbe dovuto recarsi a prendere delle scarpe rimaste lì a Sabaudia, accompagnato da Dacia Maraini. Mi piace pensare che, mentre si radeva, stesse ripercorrendo mentalmente il tragitto e tutto quel che avrebbe voluto fare prima di tornare a Roma, magari accarezzando l’idea, se il tempo fosse stato ancora piacevole e caldo, di rimanere qualche giorno al mare.
Quando ho, dunque, progettato quel convegno internazionale, avevo in mente, diciamo scientificamente tre direttrici, ancora insondate in questo ambito: in primo luogo un autore come Moravia, che aveva attraversato da protagonista il XX secolo, aveva assegnato un’importanza essenziale all’amicizia, ai rapporti con sodali giovani, a volte giovanissimi, a ritroso, quando egli stesso era poco più che ventenne con uomini e donne a volte di età molto lontana dalla sua, penso a Benedetto Croce o al critico d’arte Bernard Berenson; in secondo luogo avrei voluto sfatare l’idea del “Clan Moravia”, ovvero di una rete di relazioni fondate su reciproci favori e su un diffuso opportunismo; infine, in terzo luogo, avrei voluto offrire uno strumento di riflessione squisitamente letteraria: la relazione amicale come motivo di interscambio di idee e di progetti, come confronto, penso a Calvino che incontra Moravia, alla fine degli anni Cinquanta, e ritenendo ripetitivi e ormai esaurita la vena dei Racconti romani gli dice «Ma quando la pianti?».
Sabaudia è stata un collettore di incontri, di rapporti, di amicizie per Moravia: Dacia arredò la villetta, lunghe e piacevoli le conversazioni con Bernardo Bertolucci, Dario Bellezza, sovente ospite di casa Moravia, ultimi ma non ultimi, fra i molti ospiti, Gianni Barcelloni-Corte, Enzo Siciliano e Alain Elkann, che proprio fra Roma, Sabaudia e Parigi compose con Alberto la Vita di Moravia. Il romanziere romano aveva compreso che la pace, l’atmosfera, la dolcezza climatica e il garbo di Sabaudia e dei suoi abitanti erano gli ingredienti perfetti per la conversazione, lo scambio intellettuale e umano, necessari all’amicizia e non meno alla scrittura.

René de Ceccatty, autore di una biografia di Moravia e tra i relatori al convegno di Sabaudia, fotografato davanti alla villetta dello scrittore romano.

Una nota non troppo marginale: a Sabaudia, nella porzione pasoliniana della bifamiliare, soggiornava Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini, e sua ospite era una lettrice di spagnolo alla «Sapienza», dopo esserlo stata all’università di Palermo, Carmen Llera: era il 1982, la giovane donna, appena ventinovenne, voleva intervistare Moravia per completare la sua tesi su Luis Buñuel, era alla seconda laurea. Galeotti furono quel mare, quella duna dorata, quella cittadina immersa nel verde: Moravia si innamorò perdutamente di quella seducente, colta, misteriosa spagnola. Nel 1986, il matrimonio, non prima che lo scrittore de Gli indifferenti le avesse dedicato la raccolta di racconti La cosa.
Lo scorso anno, inoltre, ho curato un importante progetto moraviano sul tema dell’indifferenza: a novant’anni dalla pubblicazione del romanzo si è svolto a Sabaudia un dibattito con alcuni noti intellettuali, fra i quali Gianni Cuperlo, Giulio Ferroni, Annamaria Andreoli, Rino Caputo.
A Sabaudia, ho altresì tentato di affrontare e considerare la categoria del “conformismo”, che Moravia aveva già esaminato nel romanzo Il conformista (1951), film nel 1970 per la regia di Bernardo Bertolucci, ma che Pasolini ha egualmente sondato in romanzi, poesie, film. Il 26 e 27 febbraio 2015 ho organizzato un convegno internazionale dal titolo Moravia, Pasolini e il conformismo, che ha avuto un interessante conclusione a Casarsa, la cittadina friulana amata da Pasolini, il 21 marzo dello stesso anno. Dagli stimolanti interventi e dalle sollecitazioni successive nel 2018 ha visto la luce un volume miscellaneo sul medesimo argomento.

(A.S.) Un rapporto privilegiato lo aveva senz’altro con Piero Paolo Pasolini, con cui condivideva anche la già menzionata villetta al mare.

(A.F.) Pasolini e Moravia furono amici, più che amici, fratelli, o… in una relazione indefinibile secondo le categorie comuni: si potrebbe pensare ad un rapporto padre-figlio, ma dove il padre sovente giocava il ruolo del figlio, e il figlio quello di un padre risoluto e censorio, quando non proprio di severo rimprovero. A Sabaudia, prima di edificare la bifamiliare, furono ospiti nella villetta Antonelli: lavorano, parlavano, discutevano. Un’estate del 1970: Alberto aveva scritto un soggetto, Abramo in Africa; Dacia e Pier Paolo lavoravano alla sceneggiatura, con zelo e con precisione, discutendone animatamente, mutando in parte il saggetto orIginale. Nel 1973, Gianni Barcelloni, dopo vari sopralluoghi e ricerche, finalmente portava nelle sale quel capolavoro, quasi dimenticato. Un film “scritto” e pensato a Sabaudia, per parlare del neocolonialismo e dello sfruttamento in Africa.

(A.S.) C’erano luoghi che Moravia preferiva a Sabaudia? Luoghi che frequentava abitualmente?

(A.F.)  Sì, Moravia trascorreva lunghe ore al Bar Italia, seduto al suo tavolino, sorseggiava bevande analcoliche, conversava con gli amici, leggeva i giornali, non amava mettere autografi sui libri, né che gli si facessero domande personali, i sabaudiani sono sempre stati rispettosi. Andava a comprare il pesce nella pescheria, che era esattamente collocata dove oggi si trova, in Piazza Santa Barbara, una cantina di ottimi vini locali. Quasi ogni giorno, si recava ad acquistare nella tabaccheria-cartoleria Scavazza pennarelli neri e blocchi ad anelli. Si fermava per la spesa quotidiana di generi alimentari da Rossetti o da Scarton. Entrava qualche volta anche dalla signora Eufemia, che gestiva una notissima bottega di ferramenta, non saprei esattamente cosa vi acquistasse. Camminava sorreggendosi ad un bastone, passeggiando verso la chiesa e arrivava fino all’edificio della Maternità e Infanzia. La presenza di Moravia a Sabaudia è stata una presenza reale, concreta, tutti lo conoscevano e lo salutavano, non rimaneva, con gli odierni “vip” o intellettuali, chiuso nella sua villa o soltanto a passeggiare sulla spiaggia, che comunque amava, ma viveva la città; tutti si potevano intrattenere con lui brevemente, perché era impaziente.

(A.S.) Tra l’altro lei incontrò anche personalmente Moravia…

(A.F.) Ho incontrato numerose volte il romanziere a Sabaudia, come tutti del resto, e diciamo che ho “parlato” con Moravia direttamente in due sole occasioni. Sono ricordi personali, dunque in alcun modo significativi rispetto agli studi o alla ricerca letteraria. Era il 1983, avevo sedici anni, ed ero in competizione con una mia compagna di classe, Titti: il mio desiderio più grande sarebbe stato poter conoscere Italo Calvino, avevo letto tutto quel che aveva scritto, il mio testo preferito era la raccolta di racconti Le cosmicomiche; al contrario la mia amica, che vive ancora a Sabaudia ed è un’ottima primaria del pronto soccorso di un ospedale, era un’appassionata lettrice di Moravia e diceva di conoscere Calvino. La sfida era semplice: tu mi porti l’autografo di Moravia e me lo presenti, ed io ti faccio conoscere Calvino. Era un giorno di fine giugno, gironzolando per il centro, vedo Moravia al Bar Italia: mi faccio coraggio, nonostante fosse accigliato e molto concentrato a scrivere su un blocco, mi avvicino. Attendo qualche istante che si accorga di me, e quando mi osserva, prontamente saluto con un quasi urlato “buon pomeriggio”. Era noto fosse un po’ sordo. Lui secco: «Chi sei? Cosa vuoi? Perché stai lì impalato?» vedo che fa fatica a mantenersi serio. Sorrido, e rispondo sempre a voce bene alta: «Mi chiamo Angelo Favaro. Sono uno studente del liceo classico. Sono qui perché c’è una mia amica…» non mi fa terminare la frase. Interviene: «Amica? Una donna?» Rispondo: «Sì, una mia amica, che vorrebbe conoscerla, non so se…». Prende in mano il bastone che aveva accanto alla sedia di platica del Bar Italia, e lo alza e comincia a sbatterlo sul tavolino: «Basta con le donne! Basta! Vai via! E lasciami in pace. Stai lontano anche tu dalle donne» urla. Mi allontano sconsolato, per non essere riuscito a compiere la missione che non mi era parsa proprio impossibile. La seconda volta, è stata qualche anno dopo, forse proprio nel 1990, d’ estate. Era quasi sera, mi trovavo a passare nei pressi dell’ancora, correvo ad una riunione in parrocchia. Lui camminava con due amici nella direzione opposta. Uno dei due amici teneva impilati alcuni libretti, di piccole dimensioni di un bel blu oltremare. «Fermati! Vieni qui!» si fa passare un libretto e me lo dona: «Tiè, te lo regalo, e leggilo. Non legge più nessuno, ma queste so’ poche pagine!» Prendo il libretto. Sorrido. E dico soltanto: «Grazie, no a me piace leggere. E tanto». «Ah, è perché allora non hai nulla da fare.» Avrei voluto rispondere e dire tutto quello che pensavo, ma ero già in ritardo alla riunione. Quindi ho soltanto salutato e sono corso via.

(A.S.) La sua attenzione non è dedicata solo alla Sabaudia del Novecento. Ricordo anni fa la sua partecipazione in prima linea al progetto “Villa di Domiziano: percorsi”. E un fondamentale convegno da lei curato, “Domitianus dominus et deus”…

(A.F.) Il Progetto Villa di Domiziano fu curato dalla dott.ssa Daniela Carfagna, e fu lei a coinvolgermi in un’avventura entusiasmante, culminata in tre volumi: gli atti di un convegno dedicato all’imperatore romano, una guida-percorso archeologico, una antologia poetica d’età domizianea, a mia cura ed in uno spettacolo teatrale, scritto, diretto e messo in scena da me proprio nel sito archeologico della Villa di Domiziano. Il territorio di Sabaudia è un territorio ricco di entusiasmanti esperienze naturalistiche e geologiche, storiche e sociali, antropologiche e architettoniche, nell’agricoltura e nell’allevamento, artistiche e letterarie, che a mio avviso andrebbero costantemente rinvigorite e fatte conoscere, praticate. Il Parco Nazionale del Circeo in particolare contiene una fauna, una flora ed una varietà di ambienti naturali, contenuti in relativamente pochi km2, che pochi altri luoghi al mondo possono vantare. La cultura è un bene prezioso e al contempo una risorsa economica, se amministrata con intelligenza e con rispetto, secondo modalità ecosostenibili.

(A.S.) Lei ha vissuto l’infanzia, l’adolescenza e parte della giovinezza a Sabaudia. Le sembra cambiata oggi la città?

(A.F.) Sabaudia mantiene alcuni ambienti-elementi ben conservati e curati, in altri casi si nota un certo abbandono, non voglio dire degrado. Quel che ho notato nel corso degli anni è stato un lento e progressivo depauperamento di presenze giovanili e di attività produttive, ovviamente compatibili con il territorio. Mancano, a mio avviso, idee trainanti per la città e politiche che guardino un po’ più lontano, varchino le esigenze/emergenze del presente. Negli anni della mia adolescenza ho visto edificare numerosi nuclei abitativi, fino alla saturazione degli spazi, seconde case vacanze, ma non hotel; ho visto fallire aziende importanti e cessare attività; ho constatato la riduzione delle presenze nelle varie caserme (Marina, Esercito, Finanza). In questi ultimi anni, queste seconde case sono sempre chiuse, pressoché disabitate nel corso dell’anno. Nessuna nuova azienda è stata aperta. Nessuna nuova attività produttiva. Il discorso è complesso. Dico soltanto, al momento, che bisognerebbe organizzare gruppi di lavoro con intellettuali, architetti, storici, economisti, persone competenti e a conoscenza della “situazione-realtà Sabaudia”, fra Parco Nazionale e vincoli ambientali etc., coinvolgendo anche i cittadini volenterosi, in grado di offrire un contributo di idee allo sviluppo della città e del suo territorio, negli ambiti di intervento più urgenti: economia, lavoro, convivenza con nuove etnie sul territorio, accoglienza e inclusione, scuola e università, ricerca e sport, cultura e turismo, natura-agricoltura e progetti per un territorio completamente green dal punto di vista energetico e produttivo; in particolare bisognerebbe cominciare a ragionare sulle possibilità di progetti europei finanziabili per la sopravvivenza della cittadina e dei suoi abitanti.

(A.S.) È d’obbligo concludere con una domanda sui giorni che viviamo e che ci attendono. Dopo aver raggiunto l’obiettivo di “Sabaudia città di Moravia”, ha altre idee da proporre per il presente e il futuro di Sabaudia o più in generale dell’Agro Pontino?

(A.F.) Idee molte… molte sorprese… ma è essenziale cominciare a eliminare fazioni e divisioni, e, invece, mettere a fuoco la sinergia delle competenze, della buona volontà, delle visioni, dove quel che conta non è né il narcisismo personalistico, né il protagonismo affaristico. Sabaudia è al centro della provincia di Latina. Semplicemente osservando la mappa di questo vario e non troppo vasto territorio se ne colgono la ricchezza, la varietà, la bellezza. Ecco, si potrebbe cominciare da qui. Basta saper conoscere e riconoscere le opportunità che questa natura, la nostra storia plurimillenaria, l’incontro di popoli, con usi, costumi, tradizioni differenti, le architetture e le colture/culture, le arti offrono, per progettare il nostro futuro. In primis, sarebbe necessario “connettersi”, mettere in comune il patrimonio di ogni realtà locale, dalle cittadine ai più piccoli borghi, conoscersi, evidenziare le peculiarità che rendono unici luoghi-prodotti, e farli poi conoscere. Considerare i vincoli biofisici come un’opportunità e una sfida, non come un limite: ecco, io ritengo che la contraddizione sia contenuta nel concetto stesso di sviluppo industriale ed economico “infinito”, nella mercificazione di ogni bene che viene ormai considerato “bene di consumo”; la chiave di volta è nel riconoscere le potenzialità dello sviluppo sostenibile a base ecologica, culturale, di ricerca, non negare ma valorizzare la natura, con un intento di ricerca estetica, sociale, psicologica. Il benessere non si fonda sul rapporto bruto produzione-consumo, ormai lo abbiamo compreso: il nostro territorio offre possibilità di una sana e buona vita. La parola “magica” è cultura, grazie alla quale si può affrontare la novità e governare la complessità. Potrei proporre numerosi esempi pratici… ma non occorre. Ci si prenda una giornata di relax e si faccia anche soltanto una bella passeggiata in bicicletta da Sabaudia a Fondi, o da Sabaudia a Priverno… e si capirà facilmente.

(A.S.) Grazie davvero per queste parole intense e generose, cariche di significato e di speranza. Speriamo che il suo impegno in ambito culturale sia da esempio per coloro che, oggi adolescenti, avranno il compito nei prossimi decenni di contribuire allo sviluppo sostenibile di questo territorio.

Conversazioni pontine: Emilio Andreoli

La storia di Emilio Andreoli è certamente legata alla Andreoli Hi-fi, storica attività commerciale che per 52 anni è stata un punto di riferimento per i cittadini di Latina e non solo. Ma c’è molto di più, perché da tempo Emilio è diventato uno dei testimoni e dei narratori della comunità latinense, della vita, più o meno nascosta, che tutti i giorni ha animato e anima il capoluogo pontino.

 (Antonio Saccoccio) Buongiorno Emilio, partiamo da lontano. Cosa ricorda di quel giorno, nel 1968, in cui avete aperto Andreoli Hi-fi in Corso della Repubblica?

(Emilio Andreoli) Ricordo bene quel giorno, anche se avevo solo nove anni, era il 24 novembre del 1968 e al Supercinema davano “C’era una volta il West” di Sergio Leone. Quando mi capita di rivedere le foto dell’inaugurazione o il film, torno a quei momenti. Oggi sembra proprio un “C’era una volta…”. Il negozio lo progettarono due grandi designer di Latina, Tonino D’Erme e Gianni Brustolin, che allora erano molto giovani. Mio padre lo aveva voluto caldo e accogliente, chi entrava in quel negozio doveva sentirsi a casa. C’erano infatti un grande divano e due comode poltrone, per accomodarsi e ascoltare musica. Il pavimento era rivestito di moquette verde, sulle pareti stoffa verde, soffitto blu e i mobili di legno color noce. Sul soffitto due grandi lampadari, a scacchi di legno laccati bianchi, fatti a mano sul posto. Ricordo tanta gente all’inaugurazione, e tutti i vertici della Grundig, che allora era il marchio che andava per la maggiore. Purtroppo nella mia famiglia stavamo vivendo un dramma in quei giorni, perché mio nonno Emilio era stato ricoverato il giorno prima dell’inaugurazione per un malore, e il 26 novembre morì, aveva solo cinquantasei anni. Quindi nella mia mente  i bei momenti si intrecciano con quelli tragici. Comunque quel negozio fece scalpore, vennero a vederlo pure da fuori regione.   

Andreoli Hi-fi il 24 novembre del 1968, giorno dell’inaugurazione. Di lato il Supercinema con “C’era una volta il West”.

(A.S.) Il vostro negozio era un punto di riferimento a Latina per l’hi-fi. Ma la vostra fama andava ben oltre i confini cittadini.

(E.A.) Sì, era diventato un punto di riferimento, tanti clienti che venivano da fuori Latina. Avevamo clienti in tutta la Ciociaria, molti venivano dal sud pontino, Formia, Gaeta, Sperlonga, Fondi, ma anche da Roma. Tantissimi dai Castelli Romani, e qualcuno addirittura da Napoli. Avevamo prodotti di grande qualità e poi mio padre aveva applicato la politica del prezzo fisso, ma molto concorrenziale. Ricordo inoltre tanti clienti dell’est, rifugiati nel campo profughi “Rossi Longhi” di Latina, loro acquistavano soprattutto radio con le onde corte, c’era un modello della Grundig che aveva queste caratteristiche che si chiamava “Satellit”. Lo compravano per ascoltare le trasmissioni radiofoniche dei loro paesi.

L’accogliente sala interna di Andreoli Hi-fi

(A.S.) Oggi è certamente un altro mondo rispetto agli anni Settanta e Ottanta. Avete chiuso a marzo 2020, proprio quando è iniziato il lockdown nazionale a causa dell’epidemia da Sars-COV-2. È solo una coincidenza?

(E.A.) La decisione era nell’aria, ormai eravamo aperti solo per amore e per passione. La crisi economica, ma anche il modo nuovo di ascoltare musica non ci ha certo aiutato. Oggi si ascolta la musica dal cellulare, orribile per me, ma purtroppo è così. La cosa che mi ha fatto più piacere negli ultimi anni, è che molti ragazzi hanno tirato fuori i vecchi impianti dei loro papà, messi in cantina dalle loro mamme, e tanti erano stati acquistati nel nostro negozio. Certo che se la scelta di chiudere poteva essere reversibile, la pandemia e il relativo lockdown l’ha resa irreversibile. È stata senza dubbio una scelta dolorosa, ma non si può combattere contro i mulini a vento.

(A.S.) Da diverso tempo sta scrivendo e pubblicando articoli su Latina e dintorni. Da dove nasce questa sua passione?

(E.A.) La passione per la scrittura l’ho sempre avuta. Da ragazzo avrei voluto fare il giornalista, ma poi ho scelto l’indipendenza economica e quindi ho lasciato l’università e il mio sogno nel cassetto. Ho iniziato, quindi, a lavorare nell’azienda di famiglia. Le storie di Latina mi hanno sempre affascinato, poi è nato Facebook e ho cominciato a fare ricerche sulla storia del mio territorio. Due anni fa ho avuto l’occasione di frequentare un corso sostenuto dalla Regione Lazio di social media editor. Mi sono messo in gioco alla soglia dei sessant’anni, ho partecipato ai test di ingresso e sono riuscito a superarli. Alla fine del corso ho fatto uno stage nella rivista web “Fatto a Latina” e ho cominciato a mettere a frutto il percorso formativo, pubblicando ciò che più mi piaceva, le storie della mia città e anche del mio territorio.

(A.S.) Spesso sono storie di comunità quelle che lei racconta. Ad esempio quando ricorda “il giro di Peppe” o “i ragazzi del palazzo M”…

(E.A.) Mi sono sempre interessato ai fenomeni sociali che mi hanno circondato e che continuano a circondarmi. Non a caso il mio primo articolo è stato “Latina, dal giro di Peppe alla via dei pub”. Ho sfruttato la mia memoria e i cinquant’anni di negozio, dove ho visto passare di tutto. Ho visto formarsi lì davanti, sotto i portici, una delle più grandi comitive della città, che poi è stata anche l’ultima. Ho dedicato a quei ragazzi un articolo “I ragazzi del Manzoni, l’ultima grande comitiva di Latina”. Poi sono arrivati i centri commerciali, i social e i ragazzi del Manzoni sono spariti, lasciando un vuoto incolmabile nel centro della città. Nei miei racconti c’è tutto il mio vissuto, per me Latina è come un jeans sdrucito, un giubbotto di pelle consumato. Mi sono sposato molto tardi e quindi ho vissuto le sue strade, i suoi bar e i luoghi dove si formavano le comitive. Ora ho due figli, la più grande ha quindici anni e quindi continuo ad informarmi e tenermi aggiornato su cosa fa la gioventù di oggi, è un modo per non invecchiare.

La copertina del libro di Emilio Andreoli dedicato a Francesco Porzi “Biscotto

(A.S.) Ha anche scritto un libro di grande successo, quello su Francesco Porzi, il leggendario “Biscotto”. A cosa è dovuta secondo lei l’attenzione che i cittadini di Latina hanno dedicato a questa pubblicazione?

(E.A.) Biscotto è stato il primo mito della città, morto giovanissimo a soli ventitre anni. Era un ragazzo che piaceva a tutti, non solo per la sua bellezza, ma anche per i suoi modi e perché molto attaccato alle sue radici. Nonostante fosse diventato cittadino del mondo, lui amava Latina, amava tornarci e stare con gli amici di sempre. Era uno che sapeva mettere tutti d’accordo, sapeva fare comunità. Credo che il successo del libro sia stata proprio la sua storia che ha interessato, non solo i suoi vecchi amici, ma anche tantissimi giovani. Mi hanno scritto ragazzi di vent’anni per questo libro, magari di Francesco Porzi ne avevano sentito parlare dai nonni. Penso che questa città abbia bisogno di persone che conoscano il senso di comunità, identità e orgoglio delle proprie radici, Biscotto racchiudeva tutto questo. In una intervista alla sua fidanzata, l’attrice americana Monique Van Vooren, disse che il suo ragazzo era di Roma, poi si corresse subito e disse al giornalista di scrivere “Latina”, altrimenti Francesco si sarebbe arrabbiato molto.

Francesco Porzi seduto con alcuni amici al “giro di Peppe” di Latina
Francesco Porzi a New York, 1969

(A.S.) Lei è anche amministratore, con Mauro Corbi e Fabrizio Nicosia, del gruppo facebook più seguito di Latina: “Sei di Latina se la ami”. Mi sembra che stiate riuscendo a creare un senso di comunità anche attraverso i social network. È questo il vostro obiettivo?

(E.A.) All’inizio il gruppo è nato quasi per gioco. Tre amici appassionati di storia della città e dei suoi dintorni. Nei primi due giorni si sono iscritte quattrocento persone, che hanno iniziato a postare foto private, ovviamente lo sfondo doveva necessariamente contenere l’immagine di Latina. Abbiamo iniziato così a ricostruire la storia della nostra città, dalla palude a Littoria per arrivare a Latina. Una storia breve, ma così intensa e affascinante. Credo che con il nostro gruppo, che oggi conta più di tredicimila iscritti, ricostruendo un po’ della nostra storia, siamo riusciti a dare un piccolo contributo a quel senso di comunità, di cui questa città ha tanto bisogno. Certo non è stato facile gestirlo, abbiamo sacrificato molto del nostro tempo, però lo abbiamo fatto con passione infinita, anche se certe volte siamo stati accusati di essere fascisti, poi comunisti, ma noi siamo andati dritti per la nostra strada. Sono state scritte delle regole che abbiamo sempre fatto rispettare e continueremo a farlo. Sì, comunque il nostro obbiettivo, oltre a quello di fare comunità, è quello di far sentire il senso di appartenenza, per questo abbiamo deciso di chiamare il gruppo “Sei di Latina se la ami”.

Mauro Corbi, Emilio Andreoli, Fabrizio Nicosia, fondatori del gruppo Facebook “Sei di Latina se la ami” nel 2014

(A.S.) Concludo tornando al punto di partenza: Andreoli hi-fi. L’insegna del negozio è parte  della storia della città e ora possiamo ammirarla al MUG, il Museo di Carlo e Luigi Ferdinando Giannini, nei locali dell’ex tipografia Ferrazza in via Oberdan.

(E.A.) Quando Luigi Giannini mi ha chiamato per chiedermi se avessi piacere di mettere l’insegna nel museo, per un attimo ho pensato a uno scherzo o che non avessi capito bene. Poi il giorno dopo si è presentato in negozio e allora ho capito che faceva sul serio. Una cosa così prestigiosa come avrei potuto rifiutarla!? Ho pensato a mio padre, ai suoi sacrifici, alla sua attività nata nel 1957 con un piccolo negozio e laboratorio di riparazioni, di fronte le case popolari. Quando c’è stata l’accensione dell’insegna nel museo MUG di Giannini, per me e la mia famiglia è stato un momento di grande commozione che ricorderò per sempre, come se ci fosse stata una nuova inaugurazione.

Il giorno dell’accensione dell’insegna nel museo MUG

 (A.S.) Per concludere, lei ha qualche proposta per il presente e il futuro di Latina?

(E.A.) Ci sarebbero così tante cose da proporre, ma iniziamo dal presente. Alcune eccellenze che abbiamo sono poco conosciute e secondo me andrebbero valorizzate, come per esempio il conservatorio Ottorino Respighi, ci vengono a studiare pure da fuori. Ma non sarebbe bello far diventare Latina, la città della musica? D’altronde la nostra città ha tirato fuori diversi cantanti e musicisti di grande valore, penso a Tiziano Ferro e a Calcutta. Potrebbe essere un’idea creare nel centro storico delle postazioni, per far suonare i giovani studenti del conservatorio o le band locali. Un’altra eccellenza è l’istituto agrario San Benedetto, ai suoi studenti darei la possibilità di fare un orto botanico ai giardinetti. Poi illuminerei le statue e tutti i palazzi di fondazione, e con apposite targhe per raccontarne la storia. Insomma cercherei di uscire dalla tristezza del presente. Per il futuro immagino il Palazzo M di nuovo scuola/università/conservatorio, canali navigabili, il lago di Fogliano con il suo borgo restaurato per accogliere il turismo. Immagino un lido con una spiaggia immensa con tutti i vantaggi che ne conseguirebbero. Nell’immaginazione non tralascio i borghi, che rappresentano la storia più importante della nostra città, li vedo collegati con piste ciclabili e dotati di tutti i servizi. Insomma ce n’è da immaginare, in una città che ha mare, laghi, colline e un clima eccezionale.

(A.S.) La ringraziamo per la disponibilità e la passione con cui si sta impegnando per la comunità di Latina.

Conversazioni pontine: Massimo Porcelli

Massimo Porcelli è l’autore del libro Mia indimenticabile Consorte… Dall’epistolario di un soldato di Bassiano – La Grande Guerra dei Bassianesi, che nell’ultimo anno è stato presentato in decine di occasioni in numerosi Comuni dell’Agro Pontino. Approfittiamo della sua disponibilità per una conversazione sul tema.

(Antonio Saccoccio) Buongiorno, a cosa è dovuto, a suo avviso, questo grande interesse per il suo libro?

(Massimo Porcelli) Credo che sia la combinazione di una molteplicità di elementi che provo a descrivere, partendo da una preliminare considerazione. Il potenziale lettore, cioè colui che si avvicina al libro non conoscendone ancora il contenuto, ritengo sia attratto dal titolo. “Mia indimenticabile Consorte…”. Se ci si sofferma a riflettere un attimo, è un saluto particolare, se vogliamo inusuale ma pregno di sentimenti. Ed è l’esordio con il quale Antonio, mio Nonno e – come ho scritto in copertina – co-autore del libro, inizia una delle lettere che scrive dalla “zona di guerra” alla moglie Erminia.
Da questa frase scaturiscono gli altri elementi che il lettore poi scopre nel libro: i sentimenti che emergono vividi, le vicende di una Comunità – uomini, donne e bambini – e di un territorio, quello che si estende tra i monti Lepini e la pianura pontina, nel quale oggi noi viviamo ma di cui, in molti casi, non conosciamo ciò che era poco più di cento anni orsono. E come le vicende di questa Comunità e di questo territorio s’intreccino e si relazionino con quelle nazionali, connesse con la Grande Guerra, alla quale parteciparono migliaia di uomini dei paesi che si affacciavano sulla palude pontina: Bassiano, ma in egual misura Sezze, Norma, Sermoneta e via elencando.
Svariate centinaia di loro non fecero ritorno, lasciando vuoti incolmabili nelle famiglie.
È una Storia che ci appartiene, di cui ritengo si debba mantenere vivo il ricordo o diffonderne la conoscenza.
L’interesse verso il libro ritengo sia dato proprio da chi coglie questi aspetti e ne condivide lo spirito.

Antonio Porcelli, Lettera dal fronte alla moglie Erminia

(A.S.) Com’è nata realmente l’idea del libro? Ci sono di mezzo delle lettere inviate dal fronte, ma cosa è scattato dentro di lei per portarla a una ricerca tanto lunga?

(M.P.) Ha utilizzato il termine appropriato: scattare! È proprio avvenuto come lo scatto di una molla quando ho “scoperto”, sul finire del 2014, una dozzina di lettere che mio padre custodiva, scritte da suo padre Antonio – mio nonno quindi – dalla “zona di guerra” nel periodo che va dal 7 aprile 1916 al 16 ottobre 1917.
Lettere contenenti non solo gli usuali saluti o le notizie sulle proprie condizioni di salute ma una diretta cronaca delle condizioni di allora, delle speranze riposte alle notizie su conferenze di pace e dello sconforto per le drammatiche vicende della guerra, degli ideali socialisti che emergono nonostante siano in qualche modo necessariamente camuffati per non incorrere nelle sanzioni della censura militare.
Di queste lettere, purtroppo poche se si considera che erano l’unico mezzo mediante il quale venivano mantenuti i contatti con i familiari lontani e che un’altra parte – che era custodita dalla sorella di mio padre – è stata distrutta, stupiscono la ricchezza dei contenuti, le capacità espressive e la bellezza della calligrafia.
Caratteristiche che possono meravigliare se si considera che appartengono ad un “pastore”, questa la professione dichiarata da Antonio, la cui cultura scolastica era limitata dalle condizioni dell’epoca ma anelante, per sé e per la propria Comunità, alla conquista di uno status migliore. Aver rinvenuto documenti attestanti che mio nonno Antonio era stato il promotore della costruzione nel 1913 della capanna-scuola nel Quarto di San Donato è stata un’ulteriore scoperta che mi ha emozionato ancor di più, stimolandomi ad ampliare il campo di studio.
Mi sono quindi convinto che questo “patrimonio” non poteva rimanere circoscritto alla famiglia ma andava bensì ampliato e condiviso… ed è nato il libro!

(A.S.) Quali sono state le fonti che ha utilizzato per il suo libro?

(M.P.) Ho proceduto raccogliendo vari documenti, provenienti da più archivi, esaminandoli come se dovessi comporre un puzzle, cercando di collocarli nella loro giusta posizione.
Naturalmente, gli elementi di partenza sono state le lettere e alcuni documenti che già mio padre aveva acquisito in passato, anche grazie all’interesse di un mio cugino che ho scoperto essere appassionato ricercatore delle passate vicende familiari.
A questi ed a molte foto, altrettanto originali così come le lettere, presenti nell’album di famiglia, si sono andati man mano ad aggiungere i documenti matricolari degli uomini di Bassiano coinvolti nella Grande Guerra, rintracciati nell’archivio di Stato di Latina. Si tratta di 721 nominativi appartenenti alle classi di leva che vanno da quella dei nati nel 1875 a quelli della classe 1900, l’ultima chiamata alle armi per la guerra.
A questi ho associato le liste di leva, anch’esse presenti presso l’archivio di Stato, dalle quali si ricava l’esito della visita di arruolamento. Non tutti i giovani che vennero chiamati alle armi furono infatti arruolati: molti furono i non idonei: per difetto di statura o perché affetti da gravi carenze costituzionali (oligoemia, malaria). Molti altri risultarono nel frattempo emigrati all’estero venendo dichiarati renitenti e poi, con la guerra in corso, disertori.
Altra fonte importante d’informazioni sono stati i registri dello stato civile custoditi dal Comune di Bassiano così come è stato utile far più volte visita nel cimitero di Bassiano, soffermandomi avanti a quelle lapidi di coloro che avevano vissuto in quel periodo.
Infine, ma assolutamente rilevanti, si sono rivelati i molteplici siti presenti in rete, molti dei quali con importanti banche dati. In questa vasta attività di ricerca mi sono anche imbattuto in alcuni siti contenenti dati imprecisi che ho potuto far correggere.

(A.S.) Ci racconta il momento più emozionante della sua ricerca? Una lettera in particolare? Un documento con una notizia insperata?

(M.P.) Non è facile rispondere. O meglio… tanti sarebbero i momenti in cui la scoperta di un particolare, di una notizia o l’acquisizione di una foto, mi hanno consentito di inquadrare con più precisione la storia che man mano ricostruivo. Tuttavia, voglio riportare due casi particolari. Il primo è la notizia contenuta nella lettera che mio nonno Antonio scrive alla moglie il 16 ottobre 1917. Può considerarsi l’ultima scritta da Antonio prima della sua scomparsa, avvenuta in combattimento 11 giorni dopo su Dosso Faiti, il 27 ottobre. In questa lettera Antonio apprende che la moglie Erminia è incinta. Sarebbe il loro terzo figlio, ma dalle mie ricerche non è emersa nessuna nascita conseguente e devo presumere che la gravidanza non sia giunta a compimento.
L’altro episodio si riferisce, invece, alle modalità del decesso di uno dei Soldati di Bassiano. Nell’Albo d’Oro dei Caduti questi risulta deceduto in un ospedale da campo a seguito di ferite riportate in combattimento, ma questa informazione mi risultava incoerente con l’atto di morte registrato a Bassiano, in cui la causa di morte risulta attribuita a fratture multiple alle costole, emotorace e asfissia.
Il… mistero ha avuto risposta quando ho trovato il ruolo matricolare nel quale era riportato, seppur sinteticamente, l’episodio che ne aveva determinato la morte: il militare, Sergente del 20° reggimento Artiglieria da Campagna, viene sbalzato a terra dal cavallo sul quale si trovava, imbizzarritosi al sopraggiungere di un autocarro, venendo da questi travolto!

Diolinda Morelli, 1915

(A.S.) Le fotografie… ce ne sono di sorprendenti nel volume. Che provenienza hanno?

(M.P.) Il libro contiene numerose fotografie, in parte rinvenute in famiglia, altre rese disponibili da persone che, appreso delle ricerche che stavo svolgendo e della finalità, mi hanno generosamente consentito di riprodurle. Le foto riportano i nominativi di chi ha contribuito in tal modo. È stata una mia precisa volontà quella di affiancare al racconto, lì dov’era possibile, anche le pertinenti immagini affinché il lettore, osservando i ritratti ed i particolari dei volti, degli abiti, dei paesaggi raffigurati, potesse meglio partecipare al racconto di quelle vicende.
In particolare i ritratti degli uomini in uniforme, inviate alle famiglie, e delle donne che a propria volta le inviavano ai propri uomini al fronte, fidanzati o mariti, “parlano” del carattere e dei sentimenti di quella Comunità.
Da ogni foto si possono trarre, con un minimo di attenzione, ulteriori elementi d’informazione. Riporto ad esempio il foto-ritratto di Settimio Porcelli, uno dei fratelli di mio nonno Antonio, prigioniero di guerra degli austro-ungarici. L’immagine, emblematica, lo ritrae in una “scenografia” allestita in uno studio fotografico in cui il prigioniero di guerra Settimio, in uniforme del Regio Esercito ma priva di fregi e mostrine, è quasi sovrastato da una statua raffigurante un’aquila che, nell’araldica, simboleggia l’Austria imperiale.
Un messaggio di propaganda bellica!

Settimio Porcelli – Cartolina da prigionia

(A.S.) Scrivere un libro come il suo ha significato incrociare la storia d’Italia, ma anche la vita di numerose famiglie. Con la possibilità di stabilire relazioni nuove con altri membri della nostra comunità. La possibilità di vivificare un intero tessuto comunitario. Cosa ci può dire in merito?

(M.P.) È stato anche questo un obbiettivo che speravo di conseguire e credo di esserci riuscito.
I molteplici riscontri e attestati da parte di coloro che hanno letto il libro me ne danno conferma. Nei ringraziamenti che riporto all’inizio del libro, d’altronde, mi rivolgo con queste parole proprio al “Lettore” che, soffermandosi sulle foto e da queste incuriosito e sollecitato, procederà alla lettura facendo così ri-vivere le persone in esso raccontate.
Le vicende raccontate nel libro, tutte frutto di documentati riscontri, non erano mai state narrate, erano ignote ai Cittadini di Bassiano e, in moltissimi casi, ignote anche ai familiari discendenti da quei Personaggi in esso descritti.

La loro storia, così raccontata, diviene una parte della storia d’Italia.

(A.S.) Una domanda sull’autore. Chi è Massimo Porcelli, quali i suoi interessi? Lei, nato a Latina da genitori bassianesi, è molto interessato a tutto quello che riguarda l’Agro Pontino. Può dirci qualcosa in più di lei?

(M.P.) Sono nato a Latina da genitori bassianesi e bassianesi sono anche gli avi, almeno fin dal 1700, epoca di cui ho potuto trovare riscontri.
Ho intrapreso la carriera militare in Marina, Corpo delle Capitaneria di Porto – Guardia Costiera, cessando dal servizio attivo nel 2015 con il grado di Contrammiraglio.
Un trascorso che, in qualche modo, mi ha agevolato nello svolgimento delle ricerche storiche poi descritte nel libro. E quanto rinvenuto in queste ricerche mi ha fatto scoprire storie e vicende di ciò che era il territorio pontino ai primi del ‘900, quand’era la palude che molti tutt’oggi considerano erroneamente fosse disabitata.
Era invece territorio – almeno nella zona che comprende Fogliano e l’allora denominato Quarto di San Donato – per gran parte dell’anno popolato, dalla Famiglia Caetani e dal personale al loro servizio e dalla Comunità di Bassiano, costituita da circa 80 famiglie. Queste conoscenze, che prima ignoravo, mi hanno indotto a considerare con maggior interesse la storia dell’intero territorio pontino e lepino, che ritengo necessario far conoscere quanto più possibile anche, e specialmente, alle giovani generazioni, convinto che così potranno apprezzarlo ed amarlo ancor di più.

Giovanni Battista Porcelli, 1918

(A.S.) Per concludere, lei ha qualche proposta per il presente e il futuro dell’Agro Pontino?

(M.P.) Domanda impegnativa a cui, in parte, ritengo di aver dato riposta pocanzi. Tutti coloro che operano sul territorio, siano essi pubblici amministratori, dirigenti di aziende o di attività economiche, dirigenti e operatori scolastici, dovrebbero curare e sviluppare iniziative per far conoscere la storia e la ricchezza di questo territorio così che ognuno, ad ogni livello e nell’ambito delle proprie possibilità, si faccia a propria volta promotore delle sua valorizzazione e protezione.
Non è opera agevole ma neanche impossibile ed ho avuto modo di entrare in relazione, in questi ultimi tempi promuovendo il mio libro, con molte realtà e sensibilità che operano in tal senso.
Anche l’occasione di questa intervista, di cui vi ringrazio, ritengo possa concorrere in qualche modo a operare in tal senso.

(A.S.) La ringraziamo per la disponibilità. Crediamo anche noi che queste sue parole potranno essere molto utili alla valorizzazione del nostro territorio.

Conversazioni pontine: Claudio Galeazzi

(Antonio Saccoccio) Buongiorno Dott. Galeazzi, tra le sue pubblicazioni figurano studi su Pontinia, ma anche su Latina, Sabaudia, Borgo San Michele. Quando e per quale motivo ha iniziato a occuparsi della storia del territorio?

(Claudio Galeazzi) Verso la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, gli studenti delle Scuole di Pontinia furono coinvolti nella ricerca di notizie su Pontinia in occasione dell’Anniversario della fondazione  ed inaugurazione della Cittadina. Non essendoci sul campo materiali o libri in merito, si rivolsero al sottoscritto, allora impiegato in Comune.
Al fine di dare notizie certe, non solo basate sulla memoria orale di chi aveva vissuto quei giorni, iniziai le ricerche nell’Archivio comunale e nelle varie Emeroteche: il risultato, oltre che erudire i ragazzi su quanto trovato, fu condensato nel mio primo libro, Pontinia. Appunti, annotazioni e documenti di interesse e di storia locale, del 1978.
E da allora è iniziato il mio interesse per la ricerca storica, basata soprattutto su documentazione.

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C. Galeazzi, Pontinia. Appunti, annotazioni e documenti di interesse e di storia locale, 1978

(A.S.) C’è una ricerca, uno studio in particolare che ricorda con emozione?

(C.G.) Ho coordinato il riordinamento dei documenti e l’inventario dell’Archivio Storico (dal 1934 al 1945) del Comune di Pontinia, effettuati dal dott. Oscar Gaspari e dal dott. Claudio Olivieri  conclusi nell’anno 1984.
Leggere le carte e i documenti conservati nell’Archivio storico del Comune è stata un’esperienza che mi ha portato a scoprire la vita vissuta della comunità in cui vivo e molte specificità ai più sconosciute.
Inoltre, uno dei passaggi fondamentali per chi fa ricerca è la disseminazione dei risultati raggiunti: rendere pubblico il proprio studio per presentarlo agli altri studiosi e fare in modo che sia accessibile per tutta la comunità.
Il mio Archivio personale raccoglie documenti originali o in copia  che sono serviti per le mie  pubblicazioni: Giornali d’epoca, Manifesti e Avvisi relativi all’occupazione germanica, planimetrie e progetti, fotografie d’epoca e contemporanee di Pontinia e delle Città di Fondazione, testimonianze varie.
Avevo una raccolta degli articoli della cronaca di Pontinia dal 1975 al 2005, divisi per anno, mese e giorno, che ho donato, per problemi di spazio, alcuni anni fa al Comune di Pontinia e sinceramente non so che fine abbiano fatto.
Poiché i miei 20 libri, oltre a saggi, articoli ed interventi su riviste specializzate,. riguardano la storia locale, il mio Archivio insieme alla mia biblioteca riguarda la Storia locale.
Personalmente ho messo sempre a disposizione di studenti, anche per tesi universitarie, le notizie e i documenti in mio possesso, chiedendo, anche se non sempre è avvenuto, la citazione.

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Pontinia, Chiesa Sant’Anna, Cresimati con Mons. Navarra Vescovo di Terracina, Anni Cinquanta

(A.S.) Lei ha accumulato esperienze in molteplici campi, è stato operaio, commerciante, docente, responsabile del Settore Servizi alla Persona del Comune di Pontinia, sindacalista, Consigliere dell’Amministrazione Provinciale di Latina, Assessore alla Cultura e alle Pari Opportunità della Provincia di Latina. Quanto queste singole esperienze sono state importanti nel suo percorso di vita? E quanto la hanno aiutata a comprendere la storia del territorio pontino?

(C.G.) Ogni singola esperienza è stata importante nel percorso della mia vita perché mi ha portato a conoscere e a vivere le varie situazioni, i vari stati di attività istituzionali e non.
È implicito che tutto ciò mi ha aiutato a comprendere, a capire e a vivere la storia passata e presente del nostro territorio, mescolata alla quotidianità di adulti e ragazzi che cercano di vivere la propria vita nonostante tutto.

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50° Fondazione di Pontinia, 17 dicembre 1984

(A.S.) Lei è stato Fondatore e Direttore del Museo comunale di Pontinia “La Malaria e la sua Storia”. Ci racconta come è nata e si è sviluppata questa iniziativa culturale?

(C.G.) L’idea di costituire a Pontinia un museo sulla malaria nell’Agro Pontino nasce nel 1986, all’indomani del riordinamento dell’Archivio storico e dell’Archivio dell’Ufficio Sanitario del Comune.
In quella occasione furono rinvenuti una serie di interessantissimi documenti sull’attività del Comitato Antimalarico di Littoria, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, tra i quali alcune mappe, tavole colorate a mano, che illustrano con dei grafici la lotta antimalarica nella pianura pontina prima e dopo la Bonifica degli Anni Trenta.
Oltre a questo materiale, sono state trovate numerose confezioni di medicinali utilizzati nella prevenzione e nella cura della malattia, diffusa nella zona fino al 1949 e opuscoli del Comitato Provinciale Antimalarico.
Questo materiale fu utilizzato, ma solo in parte e per problemi di spazio, in due occasioni: per realizzare una Mostra sulla malaria in Agro Pontino, tenutasi la prima volta a Pontinia dal 14 dicembre 1986 al 25 gennaio 1987 e la seconda a Latina dal 27 febbraio al 20 marzo 1987.
Quindi il materiale costituì l’apposito Museo, che fu inaugurato il 19 dicembre 1993, in occasione del LIX Natale della Città.

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C. Galeazzi e C. Barbato, La malaria e la sua storia, 2004

(A.S.) Lei è stato molto impegnato anche in ambito ecclesiale.

(C.G.) Sono Diacono permanente, ordinato il 19 aprile 1998 e incardinato nella Diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno.
Sono Collaboratore pastorale presso la Parrocchia S. Anna di Pontinia.
Attualmente presto servizio volontario presso la Curia vescovile, dove, tra l’altro, il Vescovo mi ha nominato Notaio del Tribunale Ecclesiastico diocesano.
Dal 1991 sono Membro e Segretario della Commissione diocesana per l’Arte Sacra e i Beni Culturali.

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Claudio Galeazzi diacono

(A.S.) Ha una o più idee da proporre per il presente e il futuro di Pontinia e dell’Agro Pontino?

(C.G.) È una domanda che mi lascia un poco interdetto.
Nel corso dei miei anni vissuti in Pontinia (la prima volta vi giunsi il 12 ottobre 1968, proveniente da Sabaudia per dare origine ad un gruppo scout), ho cercato sempre di proporre e dare il mio impegno per la realizzazione di attività che potessero migliorare in tutti i sensi la vita e la conoscenza di questa cittadina.
Insieme ai Pontiniani abbiamo messo in atto realtà oggettive.
Ora mi si chiede di proporre idee per il presente e il futuro.
Orbene quello che propongo a chi di competenza, con tutto il cuore e lucidità mentale,  è di amare questa cittadina e tutto l’Agro: si sono chiuse, distrutte e abbandonate molte opere messe in atto con l’impegno e con il lavoro costante di uomini e donne.
È il nostro vissuto che, soprattutto adesso, – come ebbi già occasione di dire – ci insegna come la strada verso la complessità del futuro passa sempre attraverso il recupero del passato e non il suo oblìo o la sua distruzione.

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Claudio Galeazzi