Ma soprattutto era pieno di questa gente qui dei monti Lepini e del Lazio: Sezze, Cori, Norma, Sermoneta, Bassiano, Priverno, Sonnino e poi della provincia di Roma e della Ciociaria, Alatri, Ceccano, Ferentino, Rieti, Viterbo. Tutti venuti qui a lavorare, e quelli dei monti Lepini – quando dopo un po’ di chiacchiere i miei zii hanno detto finalmente chi erano – tutti subito con il dente avvelenato. Come saputo difatti che non eravamo operai come loro sui cantieri o sui canali, ma coloni venuti a risiedere stabilmente nei poderi già costruiti e bonificati da loro, manca poco e si ripigliano il posto sulla panca che ci avevano lasciato prima: «Cispadani di qua! cispadani di là!» hanno cominciato.
Lì per lì i miei zii non hanno capito: «Ma che vorranno dire con questo cispadàn?». E mio zio Iseo ha proprio chiesto piano all’orecchio a mio zio Adelchi, che aveva studiato: «Casso signìfichelo cispadàn?».
«Casso vòtu che ne sàpia mì?» Per non restare indietro però – perché a mio zio Adelchi, ma diciamoci la verità, un po’ a tutti i Peruzzi, di restare indietro non gli è mai piaciuto con nessuno – e capito comunque che questo “cispadani” non doveva essere, nei loro intendimenti, esattamente un complimento, gli ha detto lui subito: «Ma bruti marochìn, casso vulìo da nantri?».
«I poderi, voi ci avete rubato i poderi!»
Ora però bisogna dire che qualche minuto prima – prima che si scaldassero gli animi con questa storia dei cispadani e che quelli ci riconoscessero, o credessero di riconoscerci nei presunti ladri dei loro ancor più presunti poderi – c’era già stata un’altra piccola discussione su questa Littoria e sui suoi tempi di costruzione. E uno di questi dei monti Lepini – uno di Sezze – aveva detto con scherno, lasciando capire di non essere esattamente un fascista della prima ora: «Sta bene Mussolini a volerla venire a inaugurare a dicembre. E che inaugura, le ranocchie?».
Zio Pericle s’era risentito allora, e aveva detto: «Non star parlare acsì. Se il Duce ha detto che a dicembre l’è finida, a dicembre la sarà finida. Firmato Pericle Peruzzi, orcocàn» e aveva pure sbattuto la mano sul tavolo.
«Ah, va bene! non ti arrabbiare» avevano fatto subito queglialtri cambiando discorso – anche perché in quel momento stava proprio passando davanti alla panca la ronda di due carabinieri – mentre mio zio Pericle però già si diceva da solo: «Ma che casso m’è vegnù da dire?». Pure i fratelli-Adelchi ed Iseo – lo avevano guardato con la faccia stralunata come a dire: «Pericle!». Non gli avevano detto niente ovviamente, perché quello era Pericle ed era meglio non dirgli niente, però lo avevano guardato strano e lui aveva capito: «È meglio che sto zitto va’, che la figura l’ho già fatta».
Quando però quelli hanno detto «Cispadani!» e mio zio Adelchi «Marocchini!» e quelli di nuovo «Ladri di poderi!», mio zio Pericle non ci ha visto più, ci ha messo insieme l’incazzatura per l’inaugurazione decembrina – «A fémo tuto un conto, va’» – s’è alzato in piedi e al di là del tavolo, al sezzese che aveva proprio di fronte, ha detto: «Ritira la parola, marochìn!».
«Ma che ritiro? Il cazzo che ti si frega ritiro, cispadano d’un polentone.»
«Pam!» mio zio è partito con un cazzotto e s’è tuffato di là dal tavolo. Subito ci si è lanciato anche zio Iseo. Un po’ di sezzesi si sono buttati su zio Adelchi. Un gruppo di coloni come noi – sbarcati pure loro da queste parti pochi giorni
prima, e in visita anche loro al cantiere misterioso di Littoria – avendo sentito strillare cispadani di qua e marocchini di là e nutrendo il sensato sospetto che la questione potesse in qualche modo riguardarli, si sono buttati in mezzo pure loro. Sono arrivati i pecorai di Guarcino però – dalla parte degli altri – ed è stato un casino generale.
«Fermi!» gridavano gli osti: «Fermi che arriva la Forza», ossia i carabinieri.
«Fermo un corno» gridavano i velletrani, e giù botte pure loro addosso ai nostri.
Mio zio Adelchi – che nel corpo a corpo non era mai stato così bravo come mio zio Pericle, e sempre, tutte le volte che s’erano presi, le aveva prese lui – non s’è preoccupato dei cazzotti che gli arrivavano da ogni parte sul groppone e nemmeno ha pensato a restituirli se non con qualche zampata o pugnettino di circostanza. Lui l’unico pensiero che aveva in mente durante questa temperie era: «La bicicletta! Non vorrei che con questo casino qualcuno mi fregasse la bicicletta». E s’è diretto lentamente là, con la folla degli assalitori che lentamente – sgrugnandolo – lo seguiva.
Appena però ci è arrivato e ha sentito la canna della sua bicicletta tra le mani, allora – e i miei zii lo hanno raccontato per anni – allora il Leone di Giuda si è scatenato. Pareva Sansone con la mascella d’asino – Achille sotto le mura di Troia, preso dalla sua ubris – e vorticava quella bicicletta intorno a sé come una spada celeste, facendo strage dei nemici e terrorizzandoli ulteriormente con lo strepito delle urla aguzze: «Ladro a mi? Ladro de podéri a mì? Andè via, marochìn mangiamerda marocàssi! che Dio ve stramaledìssa tuti quanti!».
E quelli indietreggiavano. Lei doveva vedere come indietreggiavano. Certe biciclettate tirava quel giorno – ossia quella notte – mio zio Adelchi, che manco con Durlindana in mano. Tanto che zio Pericle – vedendolo da lontano mentre lui andava spartendo a destra e manca calci, cazzotti e coltellate secondo la bisogna – s’era detto: «Ma varda tì l’Adelchi». E s’era sentito un moto nel cuore proprio come quella volta che voleva sparare al fattore degli Zorzi Vila – «At cópo! Dove sì ch’at cópo?» – un moto di profondo amore anche per questo fratello qua: «L’è dei Peruzzi, l’è mè fradèo quel là!». E quando a un certo punto ha perso il coltello e doveva fare oramai solo coi pugni contro tutta quella ressa, ha copiato dal fratello, ha schiodato una mezza palanca da un tavolo e ha cominciato a mulinare anche lui con quella, recuperando lo svantaggio.
«La Forza, la Forza!» s’è messo però a strillare a un certo punto un oste e si sono visti quei due carabinieri e un po’ di camicie nere della milizia che arrivavano correndo.
Il tumulto s’è sedato all’istante. I miei zii hanno fatto finta di niente, cercando solo di sgattaiolare con le loro biciclette. Mio zio Adelchi ansimava. Ogni tanto ruggiva un «Marochìn!», la bici ancora a mezz’aria.
«Tasi, bestia» gli diceva ridendo zio Iseo: «Vòtu farne carcerare?» mentre se lo tirava via, facendogli finalmente posare le ruote della bicicletta sulla terra.
Uno dei sezzesi – andandosene anche lui – senza farsi sentire dai carabinieri disse a zio Pericle: «Ci rivediamo».
«Sempre pronti» rispose piano piano, ma netto, mio zio: «Firmato Peruzzi, podere 517, Canale Mussolini. A disposisión».
Bel match e danni lievi, comunque. Giusto qualche graffio. Coltellate di striscio. «Canchero» disse però poi la moglie a zio Pericle nel letto quando – facendo l’amore – ad ogni suo minimo gesto o carezza, lui non faceva che fremere: «Non star tocàrme là, non star tocàrme qua, che me fa màl».
«Canchero d’un tacabrìghe» allora, graffiandogli più forte la schiena. Dopo però, calmata e prima di dormire: «E a mì, domàn, am tocherà de novo da dovér ramendàr ‘l pastràn» il pastrano, che s’era preso lui il grosso delle coltellate. Ma anche quelle di zio Pericle dovevano essere andate tutte a segno così, senza danni gravi per i marocchini.
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Nuovi modelli di sviluppo comunitario (ebook – Quaderni dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino)
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