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L’insediamento rurale in Agro Pontino: la trasformazione dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta

Com’è noto, l’Agro Pontino è una delle aree dove più visibile risulta la “trasformazione rurale-urbana”. Esso, infatti, è stato investito da un processo di sviluppo economico che in cinquanta anni (ma soprattutto negli ultimi trenta) lo ha portato “dalla preistoria economica alla fase della post-industriale” (Fiumara, 1987). L’industrializzazione – che nelle infrastrutture della bonifica ha trovato uno dei fattori di localizzazione – è stata, indubbiamente, l’asse portante della crescita economica e del mutamento sociale, così come ora lo è lo sviluppo dei servizi e delle “nuove professioni”. Tuttavia, va sottolineato che l’Agro Pontino ha visto anche una non indifferente trasformazione dell’agricoltura verso forme più moderne e produttive.
Le vicende connesse a questi fenomeni non potevano non ripercuotersi sulle forme e sui modi dell’insediamento, coinvolgendo le costruzioni e le abitazioni rurali. Le prime conseguenze si avevano con l’espansione stessa dei centri urbani, che tra gli anni Cinquanta e Sessanta ha conglobato i poderi della fascia più prossima, con conseguente scomparsa delle costruzioni rurali o con la loro trasformazione in villini o in edifici urbani. Contemporaneamente, lo sviluppo dell’elettrificazione rurale portava all’eliminazione delle pompe a vento di cui erano dotati moltissimi poderi e che erano un elemento caratteristico del paesaggio rurale pontino. Ma la trasformazione dell’insediamento negli anni successivi subiva le conseguenze, oltre che dell’espansione urbana, anche della localizzazione degli impianti industriali e di altri e più complessi fattori tra loro coincidenti: la discesa al piano delle popolazioni dei centri collinari; l’estensione di insediamenti turistici nelle fasce costiere; il frazionamento ereditario e la moltiplicazione dei nuclei familiari; le immigrazioni; lo sviluppo di piccole aziende artigianali e commerciali; la motorizzazione individuale; la trasformazione delle produzioni agricole; ecc…
Nel corso del tempo ci si è venuti a trovare di fronte ad un’area nella quale si intrecciano tra loro in maniera complessa ed articolata pressoché tutti quei fenomeni che sono stati individuati come fattori della “deruralizzazione”, cioè della sottrazione all’uso agricolo di una gran parte del territorio ad esso prima destinato.
L’agricoltura pontina […] ha mantenuto – almeno a livello regionale – un buon grado di produttività e in taluni settori si è fortemente specializzata, talora integrandosi con alcune industrie alimentari. Ma questo dato economico si è accompagnato, soprattutto nell’ultimo quindicennio, ad una rilevante perdita di addetti, ad una sempre più consistente riduzione di superficie agraria e ad una notevole crescita del numero delle aziende. […]
In questa nuova situazione le costruzioni rurali delle bonifica e della colonizzazione  non sono più l’elemento tipico caratteristico del paesaggio dell’Agro Pontino. Affacciandosi, infatti, verso l’Agro da Norma, da Sermoneta o da Sezze si è colpiti dall’intensità di costruzioni che riempiono la pianura, tra le quali le case coloniche e le altre costruzioni rurali degli anni Venti e Trenta sono ormai in numero percentualmente decrescente rispetto ad una serie di nuove costruzioni standardizzate del genere villetta, villino o palazzina. Anche nell’Agro Pontino ci si imbatte, quindi, in uno di quei caratteri tipici della società rurale italiana contemporanea che Corrado Barberis ha definito “compagne senza agricoltura”, indicando zone rurali destinate ad insediamenti residenziali dove il terreno coltivato serve ad autoconsumo oppure dove l’attività dominante è quella turistica o quella di laboratori artigiani o di piccole aziende industriali e commerciali (Barberis, 1977).

[Antonio Parisella, “Costruzioni rurali in Agro Pontino”, in Architetture dell’Agro Pontino, L’argonauta, Latina 1988]

L’attribuzione dei poderi nell’Agro Pontino

I poderi si attribuiscono di otto e dodici ettari nelle zone migliori, secondo il numero delle braccia, cioè dei componenti più adulti e capaci di lavoro; sono da quindici a venticinque ettari nelle zone di terra meno ricca; anche la casa è grande secondo il numero di familiari. L’anno passato alcune famiglie ricorsero, per far numero, a famiglie aggregate od omonime, ciò che andò in qualche caso a discapito dell’armonia familiare, perché qui è legge che mancando alla famiglia il numero di braccia sufficienti, la famiglia decade dai suoi diritti di occupatrice del podere. Tra membri aggregati, è facile che accadano scissioni. In questo la disciplina dell’Agro è di ferro. Da quest’anno le famiglie coloniche devono essere legate, quando si tratta di due o tre famiglie, da parentela stretta. […]

E’ una preoccupazione essenziale di questo movimento che le famiglie siano omogenee, e lo sono. Bastano due generazioni, padre e figlio con la loro donna e i loro figli. A questo scopo si affrettano matrimoni e parentele. In certune di queste famiglie, mancando il numero sufficiente di braccia, il giovane è stato interrogato se avesse l’amorosa, e se volesse sposarla entro le ventiquattr’ore, alla vigilia della partenza; risponde di sì, si chiama la ragazza: “Sei disposta a sposare domattina il tuo ragazzo?”. “Eh, perché no? Se lui vuole”. “Lui vuole, e domattina vi sposerete”. Alla partenza, è già fatto.

[tratto da: Corrado Alvaro, Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, 1934]

“I poderi erano tutti uguali”

I poderi erano tutti uguali. O meglio, in realtà la parola podere significherebbe l’intero terreno assegnato ad ogni famiglia di coloni, che variava da dieci a quindici o anche venti ettari di terra, a seconda della fertilità e della possibilità d’irrigazione. Ma noi da subito abbiamo cominciato a chiamare “podere” il casale dove abitavamo; neanche la stalla – che pure era attaccata – o i fienili o i magazzini, ma proprio la casa. Quello era il podere perché sopra – sul fronte che dà verso la strada – su di un angolo al secondo piano, scritto a lettere alte di pietra, c’era: “O.N.C. – Podere n. 517″ – Anno X E.F.“.
O.N.C. vuol dire Opera nazionale combattenti e Anno X dell’Era Fascista vuol dire 1932, dieci anni dalla marcia su Roma, inizio di un’era millenaria che non doveva finire più. Prima c’era stato il mondo di prima, con il disordine, l’ingiustizia e il disprezzo dell’Italia da parte di tutti; adesso s’era aperta un’era nuova, dove il nome di Roma avrebbe trionfato e imposto la sua pace su tutto il mondo. O almeno questo era quello che dicevamo orgogliosi. Sul casale c’era scritto “podere” a lettere di pietra bianca, ripeto – belle grandi sull’intonaco celeste – e quindi noi i casali li abbiamo chiamati allora e per sempre “poderi”.

Il nostro stava – come sta tuttora – sulla Parallela Sinistra, la strada che costeggia parallelamente il Canale Mussolini nel tratto che da ponte Marchi attraversa l’Appia prima e la Provinciale poi. […]

I poderi – ossia i casali – erano tutti celesti. A due piani. Col tetto a due falde e capriate di legno. Tegole rosse alla marsigliese. Grondaie per la raccolta dell’acqua e discendenti. Sopra il tetto il comignolo grosso – tondo – in cemento prefabbricato, uguale per tutti. Le finestre nuove di zecca erano verniciate di verde e non avevano persiane ma, all’esterno, zanzariere – reti metalliche a maglia finissima che impedivano l’accesso agli insetti – poi i vetri e dietro, all’interno, gli “scuri” di legno verniciati chiari, pannelli che richiusi non lasciavano filtrare la luce.

[tratto da Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010, pp. 205-206]

Mimma Negrosini Lucci: dagli anni Trenta nel podere di Tor Tre Ponti

Io ricordo ciò che mio padre mi raccontava, perché io della palude non ricordo nulla, sono arrivata nel 1932.

Mio padre viveva nella palude. Avevano bestiame: cavalli, mucche… Andavano alle fiere e guadagnavano qualche soldino per vivere. Una vita tranquilla, serena. Non si pretendevano tante cose. […] Mangiavano la polenta. Mangiavano molta caccia. VIvevano di caccia. Tant’è vero che la vendevano pure. Ogni settimana passava uno che ritirava questa caccia e la portava a Roma. […]

Io già da bambina avevo il mio ruolo in questa famiglia, perché  dovevo governare i conigli, i polli… Mamma e papà avevano il bestiamo. Quando sono diventata un pochino più grande, nel ’44, subito dopo la guerra, avevo 12 anni, dovevo governare 50 mucche: due stalle più il recinto. Però si faceva come una cosa normale, lavorare non era una fatica. La mattina ti alzavi, io non ho mai munto una mucca, perché quello lo faceva papà. Il lavoro è stato sempre per me una soddisfazione, non un peso. […]

Il podere aveva il bestiame, il grano, granturco. Non avevamo ortaggi allora. […] Noi eravamo tre persone, io, mamma e papà. Poi, nel ’53, mio marito è venuto a vivere qua.

VIcino a me c’era una famiglia che aveva 7 figli. Con tutti questi bambini si giocava, erano tutti allegri, uniti… Non era come adesso che ci si mette dentro casa… C’era anche il momento in cui si giocavo, Io mi ricordo la sera, quando si era finito tutto, che si era cenato, sul ponte, fuori, tutti i bambini, poi venivano altri vicini, si stava là, si vedevano le stelle, si facevano tante cose, cose belle. Si era di una serenità unica. Non c’era da pensare ad altro. Si vedeva al momento. Si era contenti e sereni.

Noi eravamo di Sermoneta. Io sono nata a Sermoneta, poi siamo venuti qui. La strada, ci si riuniva. Adesso non ci si conosce più, ma prima eravamo tutti uniti. […] Molte famiglie venivano dall’Alta Italia. Sulla mia strada era tutta Università di Sermoneta. Dall’Altra strada, invece, era l’Opera Nazionale Combattenti. E poi una cosa: mia madre, che aveva fatto la quinta elementare a quei tempi, leggeva. La sera questi ragazzi, anche questi dell’Opera nazionale, se c’era un libro, un romanzo, lo portavano a mia madre, e mia madre leggeva in continuazione. Noi tutti attorno a questo tavolo ad ascoltare mia madre che leggeva. […]

Abbiamo vissuto con i tedeschi in casa per una settimana. Noi tutti in una stanza sopra. Si faceva da mangiare con un fornelletto e un po’ di carbone. I tedeschi stavano sotto e in una camera sopra. […] Non hanno toccato niente, ci hanno trattato benissimo, nella nostra stanza non sono mai venuti. Però poi papà disse “così non è possibile, dobbiamo andare via”. E siamo andati via.

Questo mio zio, fratello di mamma, che non ha mai avuto bambini… Sono andati in tribunale e hanno fatto un’adozione e ho dovuto aggiungere un cognomei. […] Io ho due cognomi. Mi chiamo Negrosini, che è mio padre, Lucci, che è mio zio e Guglielmina di nome. Però mi chiamano Mimma, perché per Guglielmina non mi conosce nessuno. Tant’è vero tante volte arriva la posta: “Signora, ma lei da quando abita qua?”. “Ma io ci sono nata qui”. “Non la conosce nessuno”. Perché Guglielmina non esiste, solo sui documenti. Per tutta la zona sono Mimma.

(Mimma Negrosini Lucci, Tor Tre Ponti, 31 Gennaio 2014)

ImmagineIl ponte sul canale fa da ingresso al podere

ImmagineIl podere con vista sui monti Volsci

ImmagineUna caratteristica che rende unico il podere: le galline che vivono sugli alberi

ImmagineL’originale porta in legno del podere, ancora al suo posto.

ImmagineGuglielmina (Mimma) Negrosini Lucci: in questo podere dagli anni Trenta ad oggi

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