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“Bacino delle Paludi Pontine o meridionale” (dalla Guida della provincia di Roma di E. Abbate, 1890)

Enrico Alessandro Abbate (Milano, 1858 – Roma, 1929) scrisse, tra le altre sue opere, una fondamentale “Guida della Provincia di Roma”, pubblicata nel 1890 dalla sezione romana del Club Alpino Italiano. Abbate era entrato giovanissimo nella sezione romana del CAI, in cui poi ricoprì per venti anni la carica di Segretario. La Guida è divisa in due volumi: nel primo si illustrano topografia, orografia, idrografia, clima, geologia, flora, fauna, storia, arte, costumi, lingua, prodotti del suolo, industrie, commerci, viabilità; il secondo è dedicato agli itinerari, divisi in itinerari sulla riva destra e sulla riva sinistra del Tevere.

Pubblichiamo qui sotto il paragrafo intitolato “Bacino delle Paludi Pontine o meridionale”, tratto dal capitolo “Topografia e orografia”. Il passo è degno di interesse perché restituisce una visione sintetica ma completa del nostro territorio alla fine del XIX secolo.

Bacino delle Paludi Pontine o meridionale

Ed eccoci al terzo ed ultimo bacino, racchiuso tra i monti Albani a N, i Lepini che formano una curva per circondarlo da E a S, ed il mare a O. È costituito da una superficie bassissima che si stende con dolce declivio da Cisterna a Terracina. Solo una leggiera prominenza longitudinale forma come barriera in faccia ai Lepini e impedisce che le acque si versino per questa zona direttamente al mare, obbligandole invece a percorrere la pianura nel senso della massima lunghezza fino alla costa di Badino che lega Terracina al Circeo. La lunghezza del bacino è di 66 km, e la larghezza di 35. Mentre gli altri due bacini sono a colline e a monti, e sono percorsi da numerosi corsi d’acqua scavati in letti profondi, questo bacino è quasi dovunque allo stesso livello e le acque, una volta stagnanti, vanno ora in gran parte raccolte da un ampio canale. Le paludi formano una vasta pianura, coperta di pascoli e di foreste, e terminante al mare. Il capo di Anzio, quello d’Astura ed il Circeo sorgono alla estremità.

Dalle belle città di Genzano, di Civitalavinia, di Velletri, situate sulle verdeggianti e ben coltivate falde dei Laziali, si scende in una campagna arida, denudata, monotona, senza limiti apparenti. A mezzodì di Cisterna, borgo triste ed ultima agglomerazioni di abitazioni, fino al mare, il terreno è argilloso e spesso coperto d’acqua. A O si stendono immensi pascoli fino ad una foresta, mentre dall’altro lato una seconda foresta occupa lo spazio fra il piede delle montagne e la via. Innumerevoli mandre di buoi, bufali e maiali popolano questa pianura, al di là della quale cominciano gli stagni della Tepia, avanguardia delle paludi. Sebbene monotono e triste a percorrersi, questo paesaggio ha una grandezza che impone e che riesce ammirevole.

La parte occidentale del bacino contiene una pianura boscosa e le ultime ondulazioni dell’Artemisio. La vegetazione va languendo ed una stretta zona di terreni coltivati si interpone fra una foresta ed il mare, nel quale si avanza il promontorio su cui è assiso Anzio e poco oltre Nettuno. Al di là di questo ultimo villaggio la foresta continua a stendersi lungo il mare, interrotta soltanto, a 15 km di distanza, dal promontorio d’Astura. Oltre Astura continua ancora, tagliata da laghi che strette lingue di terra separano dal mare. Il primo e più esteso è il lago di Fogliano in cui sbocca il ruscello di Conca o Astura; gli altri, minori per estensione, sono i laghi di Monaci, di Caprolace e di Paola. Sulle rive di essi la natura ha sparso brillante vegetazione e le quercie, i sugheri, i frassini, gli olmi vi crescono confusamente con arbusti e piante rampicanti. I lupi e i cignali disputano ai buoi, ai cavalli, ai maiali, che vivono qui in perfetta libertà, questa foresta, spesso quasi impenetrabile, la quale riposa in parte sopra terreno alluvionale piano ed umido, in parte sopra dune che hanno 15 a 18 m. di elevazione. Al di là del lago di Fogliano, esse sono tagliate da una immensa escavazione, attribuita al papa Martino V di cui porta il nome, così profonda che la cima dei grandi alberi, i quali crescono nel fondo, non giunge al livello della sua ripa.

Si trova quindi il Circello o Circeo, enorme masso calcareo di 13 a 14 km di circuito, che si eleva a picco fra un’immensa pianura ed il mare, mentre il suolo che lo circonda è tutto alluvionale. La pianura fra il Circeo e Terracina è coperta d’acque stagnanti e di boschi e forma una catena di dune per una larghezza di 16 km, interrotta da un corso d’acqua largo da 20 a 25 m., detto Portatore di Badino. Terracina si eleva in anfiteatro sopra i fianchi ripidi di un monte calcareo.

Da Terracina, volgendo verso N e seguendo la via Appia che attraversa nella sua lunghezza l’intiero bacino, si vedono tutti i lavori di disseccamento. Al primo piano un tappeto di brillante verde copre il suolo, attraversato dall’Amaseno che discende dalle gole dei Lepini; più lungi il canale dell’Uffente, anch’esso nascente nei Lepini presso Sezze.

Fra questi due corsi d’acqua e al di là dell’ultimo, fino a che può giungere l’occhio, in piano perfettamente orizzontale, si stendono pascoli, coperti da numerosissime mandre di buoi. La via Appia fra quattro file d’alberi traccia una immensa linea dritta: a lato di essa, corre il grande canale di scolo, detto Linea Pia. Tutte le acque si riuniscono a Ponte Maggiore e rapidamente sboccano nel mare per mezzo del canale detto Portatore di Badino, mentre un altro canale pone in comunicazione la Linea Pia col porto di Terracina.

Le antiche stazioni di posta sono le uniche abitazioni che interrompano la solitudine di questo immenso deserto; soltanto ad oriente l’orizzonte è chiuso dal pittoresco e variato gruppo dei Lepini sulle cui rocce grigiastre si adagiano interessanti paesi.

La pianura che si estende fra l’Amaseno e i Lepini è coltivata con molta cura e intelligenza, ma è continuamente minacciata dal fiume, malgrado le alte dighe che racchiudono le acque sempre cariche di massi rocciosi tolti ai monti. Un ponte di pietra sull’Amaseno dà ingresso ad una stretta gola resa anche più tetra da una folta foresta di sugheri e di verdi querce.

Nel mezzo di questo severo paesaggio sorge l’antico convento dei Trappisti, l’abbazia di Fossanova; a destra nella valle di Sassa, Sonnino; ed a sinistra Piperno sopra una collina ricca di olivi. Qua la scena cambia: non sono più le pianure senza confine, l’orizzonte immenso delle paludi; una stretta cerchia di montagne circonda, con i suoi scaglioni coperti d’olivi o di boschi, una pianura, ben coltivata, irrigata dall’Amaseno; le vette dei Lepini, fra cui spicca il Cacume, s’ergono sui verdi pendii che ne formano la base; siamo rientrati nel dominio della piccola coltura, lungi dalla malaria, e perciò numerosi villaggi, Maenza, Roccagorga, Roccasecca, popolano le falde dei monti.

La pianura a oriente di Piperno, formata di sabbia ghiaiosa e ordinariamente lavorata dai bufali, è coltivata a cereali e a vigenti. Al di là della gola, dalla quale esce l’Amaseno e la quale termina in una larga vallata, nella direzione di S, si trova Prossedi, situato sullo spartiacque delle Paludi e del Sacco.

All’estremità occidentale della piana di Piperno, fra due rigonfiamenti della montagna, sorge Sezze; più oltre, sempre sulle falde dei monti, in posizioni forti, Sermoneta, Bassiano, Norma.

I Lepini, che da questo lato han corso fin qui da S a N, or girano ad angolo retto verso oriente, e alla sommità di quest’angolo sta Cori. Al di là perdono l’aridità e l’asprezza che caratterizza il loro versante occidentale; al di sopra dei piani boscosi delle loro falde, in elevata posizione, si trovano Rocca Massima e Artena, mentre al fondo della vallata, che va fino a Velletri, è situato Giuliano, presso il cratere d’un vulcano ora ripieno di acque stagnanti. A questo punto entriamo nel bacino o valle del Sacco.

Dolci della tradizione pasquale dei Monti Lepini e Ausoni (ricette)

Nei paesi collinari dei Monti Lepini e Ausoni i dolci pasquali hanno una lunga tradizione. Si dividono in due grandi gruppi: dolci lievitati con lo stesso impasto delle ciambelle cresciute (o ricresciute), ma con la caratteristica sagoma di “pupa” (la bambolina) o di “cavalluccio”; dolci a base di ricotta, senza farina. Abbiamo raccolto alcune ricette da nostri informatori residenti nei paesi di Sermoneta, Cori, Sezze e Sonnino. Ringraziamo tutti per la preziosa e amichevole collaborazione, buona pasqua e buoni impasti.

CORI: “Torta di ricotta corese” (ricetta di Caterina Pistilli)

Per Pasqua, non può di certo mancare la torta di ricotta della tradizione contadina del mio paese.
Una vera squisitezza nella sua semplicità, aromatizzata da rum, vaniglia, caffè e cannella, che danno a questa torta un sapore e un profumo che mi riportano lontano nel tempo.
Un tempo che profumava di semplicità, di cose fatte con il cuore, di voci di donne che risuonavano nei vicoli del mio piccolo paese. Di vaniglia e di cannella, che impregnavano l’aria.
Quando da ragazza ero aiutante nel negozio di generi alimentari di mia mamma e le nostre clienti venivano ad acquistare tutti gli ingredienti, le loro voci coloravano e animavano la piccola bottega, discutendo talvolta sul procedimento o altresì sulle dosi degli ingredienti da utilizzare.
Ingredienti che sono per lo più ad occhio come tradizione vuole.

DOSI
1 kg di ricotta di mucca o di pecora
500 grammi di zucchero
5 uova
3 cucchiai di caffè in polvere
150 grammi di cioccolato fondente grattugiato
Una fiala di aroma vaniglia
Due fiale aroma rum
3 cucchiaini di cannella in polvere

PROCEDIMENTO
In una planetaria o a mano unire la ricotta allo zucchero.
Incorporare le uova una alla volta.
Aggiungere tutti gli ingredienti.
Assaggiare (anche da cruda è buonissima) e sistemare l’impasto in una teglia.
Cuocere in forno preriscaldato a 180 gradi per circa 30 minuti
Quando la superficie sarà dorata la torta sarà pronta.
La torta si conserva in frigorifero per 4 o 5 giorni.

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Torta di ricotta corese realizzata da Caterina Pistilli

SERMONETA: “Torta di ricotta sermonetana” (ricetta di Adele e Gloria Monti)
È un dolce tipicamente sermonetano, di solito si prepara per la Pasqua.

DOSI.
1 kg e ½ di ricotta
15 uova (se la ricotta è asciutta), 7/8 uova (se la ricotta è umida)
4 etti di miele
1 bicchierino di sambuca
Cannella q.b. per una spolverata

PROCEDIMENTO.
Impastare la ricotta con le uova e il miele solo e rigorosamente a mano. Non usare lo sbattitore, perché crescerebbe troppo l’impasto.
Aggiungere la sambuca e continuare a impastare.
Sistemare l’impasto in una teglia.
Cuocere in forno a 180 gradi, per circa 40 minuti.
Sfornare e spolverare con la cannella.

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Torta di ricotta sermonetana

CORI: “Pupe e cavagli” (ricetta di Caterina Pistilli)

Dolce della tradizione contadina, molto semplice e poco goloso. Veniva preparato durante la settimana della Pasqua dalle mamme come regalo per i loro figli, ognuno avrebbe avuto il suo. Simbolo di prosperità e abbondanza.
Mia mamma mi racconta che lo ricevevano in dono la domenica di Pasqua e lo mangiavano il giorno dopo, a Pasquetta. Lo portavano con sé nella scampagnata nei campi.
Mia nonna per i figli maschi faceva il ferro di cavallo, molto più semplice da realizzare, ma lo stesso molto gradito. Venivano cucinati nei forni a legna del paese, poiché non tutte le abitazioni avevano il forno a disposizione.
Ogni donna preparava il dolce nelle proprie abitazioni e poi, tutte insieme, andavano, con i testi appoggiati sopra la testa su una corona formata da un grosso fazzoletto, al forno del quartiere a cucinarlo.
Io ho voluto riprendere questa tradizione saltando la generazione di mia mamma, lei non li ha mai realizzati.
Ho imparato dalla ricetta della famiglia di mia suocera e di sua sorella, zia Giustina.
Ora per le mie figlie è un classico, lo pretendono ogni anno e a me fa molto piacere accontentarle.
Anche se effettivamente è un dolce poco goloso e molto semplice, ottimo per la colazione, pucciato nel caffè latte.

DOSI.
4 uova intere
10 g di bicarbonato di sodio
20 g di cremore tartaro
4 etti di zucchero
1/2 bicchiere di olio
1/4 di latte
Arancia grattugiata
Liquore a piacere, circa un bicchierino da caffè
Un kg di farina 00
Confettini colorati per decorare e zucchero Semolato

PROCEDIMENTO
In una ciotola o nella planetaria incorporate le uova con lo zucchero, poi il latte, l’olio, il liquore e la scorza di arancio.
Unire il cremore tartaro e il bicarbonato e poi la farina poco alla volta.
Lasciare l’impasto amalgamato e morbido il giusto per poterlo lavorare con le mani per fare le pupe. Io mi aiuto con il cucchiaio.
A cucchiaiate formare due sagome per la testa e per il corpo direttamente su carta forno in teglia, mettendo poco impasto perché lievita moltissimo.
Per fare i capelli e tutti i particolari fare l’impasto più duro e aggiungere il cacao per differenziare i particolari.
Fondamentali sono le sisotte e l’uovo legato a forma di croce.
Appena formate le sagome, spennellare la superficie con uovo battuto o latte freddo in modo da fare attaccare i confettini e lo zucchero semolato.
Cuocere in forno caldo a 180 gradi per circa 30 minuti finché non sono dorate.
Unica raccomandazione: cercare il più possibile di mantenere l’impasto morbido per renderlo anche piacevole al gusto.
Con queste dosi vengono 3 pupe piccole e 2 cavalli.

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Pupe e cavaglio realizzati da Caterina Pistilli (Cori)

SONNINO: “Pupa e cavagliuccio” (ricetta di Francesco Verdone, detto “Ciccio”)

Pupa e cavagliuccio sono due dolci tipici della cucina sonninese che si regalavano ai bambini per il giorno di Pasqua. Oggi ci sono uova di cioccolato e colombe e quasi nessuno li fa più. Con lo stesso impasto si realizzano anche le ciambelle cresciute.

Per tener viva la tradizione Maurizia De Angelis (che ringraziamo), membro della Pro-Loco di Sonnino, presidente dell’Associazione Fra-Menti e referente locale dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino, si è recata presso il laboratorio di Americo Leoni, in pieno centro storico, e ha intervistato il pasticciere Francesco Verdone, conosciuto da bambino come “Ciccino”, che ha spiegato come realizzarli. “Ciccino” è il figlio di Maria Grazia, nota in paese come “la fornara”, perché era proprietaria del forno della zona della Brigata a Sonnino. Maria Grazia ha lasciato in eredità al figlio il suo sapere acquisito in decenni di esperienza.

Qui il video in cui Maurizia De Angelis dialoga con il pasticciere Francesco Verdone. Le riprese sono state realizzate da Candido Paglia, che ringraziamo, del sito www.sonnino.info .

DOSI (in passato le quantità non erano misurate in grammi, ma in pugni o al massimo bicchieri)
5 uova
1 bicchiere di olio EVO
1 bicchiere di latte
2 bicchieri di zucchero
20 grammi di lievito di birra
1 pizzico di sale
1 bustina di vaniglia
Semi di anice
Sambuca
Farina q.b. per l’assorbimento

SEZZE: “Spaccatelli” (ricetta di Antonella Costantini ereditata dalla mamma Annunziata)

DOSI
12 uova
1 kg di zucchero
1 bicchiere di latte
150 grammi di strutto
1 limone grattugiato
Farina (quanta ne serve)

PROCEDIMENTO
Il procedimento è piuttosto semplice, non si ha bisogno di lievitazione.
Impastare bene le uova, lo zucchero, il latte, lo strutto e il limone grattugiato con la farina, come per preparare una pasta frolla.
Formare delle pagnottelle tondeggianti.
Con un coltello fare un’incisione a forma di croce (x) sulle pagnottelle.
Mettere in forno per mezz’ora circa.

SEZZE: “Tortoli” (ricetta di Antonella Costantini ereditata dalla mamma Annunziata)

DOSI
40 uova
1 kg e ½ di zucchero
1 bicchiere di sambuca
¼ di litro d’olio
½ litro d’acqua
1 limone grattugiato
Una pagnotta di pasta di pane lievitata
Farina (quanta ne serve)

PROCEDIMENTO
Preparare un impasto con la pasta di pane lievitata e tutti gli altri ingredienti.
Se l’impasto è troppo liquido, aggiungere altra farina. Non c’è una dose fissa di farina, ci si regola a seconda della consistenza dell’impasto, di quanto “tira l’impasto”.
Preparare delle pagnottelle di pane e metterle a lievitare.
La lievitazione dura circa 7/8 ore.
Infornare e cuocere a bassa temperatura. Le pagnottelle devono cuocere molto lentamente per evitare che restino crude.
In passato, si metteva di solito a lievitare di sera e la mattina del giorno dopo si infornava le pagnottelle.

Tortolo sezzese (Pasticceria “Bontà setine” di Laura e Loretta)

Trascriviamo ora le ricette dei dolci pasquali locali raccolte da Adriana Vitali Veronese nel suo volume Latina in cucina. Aromi e sapori antichi e nuovi, Latina 2013. Adriana è una collaboratrice storica dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino.

Ciambelle di magro
Comunissime in tutta la provincia per la Pasqua: 1 tazza di olio, 1 tazza di vino, 1 tazza di zucchero, 1 pizzico di cannella e farina quanta ne occorre per un impasto di giusta consistenza. Cuocere in forno a calore moderato. Qualcuno aggiunge anche un po’ di cacao per renderle più brune e anche semi di anice per renderle più aromatiche.

Ciammellone (Ciambellone)
Di solito si prepara a Pasqua: 4 uova, 4 etti di zucchero, ¼ + ½ quarto di latte, 1 bicchiere medio di olio, una grattatina di buccia di limone, 1 bustina e ½ di lievito Pane degli Angeli.

Giglietti dolci di Pasqua
8 uova, gr. 600 di zucchero, 800 gr. di farina. Lavorare a lungo gli ingredienti. Prima solo le uova con lo zucchero. Con un cucchiaio prendere l’impasto e disporlo a forma di dischi distanziati sulla placca del forno unta. Cottura in forno a calore dolcissimo. Devono restare chiari.

Caciatella di Pasqua (Roccasecca dei Volsci)
1 kg. di ricotta, 4 uova, 4 cucchiai di zucchero, cannella. Buccia di limone grattugiata. Con questi ingredienti si fa una crema, lavorando bene la ricotta col cucchiaio di legno. Si prepara una sfoglia con farina e uova; si riveste una teglia e si riempie con la crema di ricotta. Si cosparge di zucchero e cannella. Si guarnisce con strisce di sfoglia, tagliate magari con la rotella, sino a formare un grigliato. Infornare.

Ciambelle ricresciute (Priverno, Roccasecca, Sezze – per Pasqua)
6 uova, 2 etti di zucchero, ½ bicchiere di olio, un pizzico di anice, un cubetto di lievito, limone grattugiato e farina quanta ne occorre per un impasto morbido. S’impastano gli ingredienti lavorando bene. Lasciare lievitare in ambiente caldo per un giorno intero. Rimpastare e formare le ciambelle. Disporle su una placca da forno unta e infarinata. Lasciare lievitare, in ambiente caldo, finché non sono ricresciute. Spennellare la superficie con uovo battuto per lucidare. Infornare.
In occasione della Pasqua si sagomano queste ciambelle a forma di cavalluccio (per i maschietti) e a forma di pupazza (per le bambine) inserendo un uovo sodo nella pancia della pupazza: simbolo di buon auspicio e augurio di fertilità.

Caciata (Sezze)
Viene preparato per la Pasqua. Ricotta kg. 1.500, condita con 3 tuorli e 1 uovo intero, buccia di limone grattugiata, 2 o 3 cucchiai di cognac o altro liquore profumato, poco zucchero e un pizzico di cannella. Amalgamare bene gli ingredienti che devono formare una crema, con la quale si farcirà una sfoglia di pasta frolla. Cospargere la superficie della crema di ricotta con una spolveratina di cannella (qualcuno preferisce cospargere caffè in polvere).

La rave ‘glio finanziere (di Patrizia Carucci)

Il tabacco è stata una delle colture più diffuse sul territorio agricolo di Cori. Ormai è definitivamente sparita, ma fino alla metà del secolo scorso era molto fiorente e abbastanza remunerativa. I maggiori guadagni li ricavavano coloro che si dedicavano alla vendita clandestina, al contrabbando. Le qualità di tabacco erano “Moro” e “Erzegovina”, quest’ultima conosciuta in corese come “Zzecoìna”.

Le piantagioni, più o meno grandi, erano sotto il controllo dello Stato che ne aveva il monopolio. Dalla semina, al trapianto, al raccolto fino alla consegna il coltivatore e la merce erano soggette al controllo capillare della Finanza. Le piantine messe a dimora erano contate e la perdita anche di una sola doveva essere giustificata. Pure le foglie del tabacco raccolto venivano contate e ne andava fatto un resoconto alla consegna nel magazzino preposto. Il terreno coltivato va continuamente sorvegliato dal coltivatore, anche per scongiurare i furti, che finisce così per dormire in mezzo al campo ove si costruisce un apposito capanno per lo scopo.

Lo Stato non pagava in maniera soddisfacente quella fatica. La coltivazione clandestina, invece, e la consequenziale vendita di contrabbando erano molto più proficue, ma erano fortemente ostacolate dalla Guardia di Finanza cosicché la coltivazione del tabacco è andata via via diminuendo fino a sparire. Il più vicino orto di tabacco a Cori stava fra via San Nicola e il Sembrivio, dove oggi c’è il palazzo dei Palleschi. Le coltivazioni clandestine venivano effettuate però nei boschi comunali nei quali si facevano crescere piante isolate di tabacco che davano un prodotto scadente. Queste foglie venivano però sostituite con quelle migliori delle coltivazioni ufficiali e poi vendute di contrabbando aumentando così di molto il guadagno.

Le piante venivano coltivate dalla primavera e la raccolta del tabacco avveniva nei mesi estivi (luglio e agosto). In seguito, a ottobre, quando le foglie si erano inumidite, avveniva il trasporto e la conservazione nel magazzino di stagionatura e di prima lavorazione che stava a Giulianello. La coltivazione è dura e rischiosa e anche il raccolto non è facile, ma ancor più impegnativa è la prima conservazione ed essiccatura. Appena raccolte le foglie vengono suddivise per qualità e dimensioni facendone dei pacchi nei quali sono distese le une sulle altre combacianti. Portate in locali ben areati, infilate con agone e “trinciafio” ed appese ad essiccare. Una volta secca la foglia è fragilissima, al minimo tocco si sgretola, ma poi con l’umidità autunnale assorbe molta acqua divenendo morbida e duttile per essere lavorata. Nelle camere dove il tabacco è lasciato ad essiccare l’aroma è fortissimo, impregna le narici e la gola provocando una certa ubriachezza e pare che ciò sia stata la causa della “pseudofollia” per la quale sono rinomati i coresi, per lo meno a quei tempi…

L’attività del contrabbando avveniva soprattutto nelle ore notturne e gli acquirenti venivano da altri paesi. Nelle notti buie e tempestose dell’inverno, attraverso i sentieri di montagna o attraverso le campagne, raggiungevano le località prescelte per i successivi smistamenti. La merce veniva occultata nei modi più disparati, nei sottofondi dei carretti, tra le fascine di legname o addirittura, più pittorescamente, ben avvolta collocata fra strati di letame. I contrabbandieri affinavano ogni sorta di espediente per poter passare “indenni” attraverso i paesi, in maniera occulta, come ad esempio quello di ululare come i “lupi mannari” trascinando catene e battendo sui muri e sugli usci delle case, cosicché se qualcuno era ancora per strada sarebbe velocemente rientrato nella propria dimora e chi invece già vi era si sarebbe sprangato dentro spegnendo ogni lume per la gran paura. In tal modo i contrabbandieri attraversavano l’abitato senza essere visti.

La Guardia di Finanza aveva un bel da fare per contrastare il contrabbando del tabacco. Allestiva posti di blocco sulle strade da e per Cori o addirittura eseguiva perquisizioni anche a casa dei fumatori potenziali clienti. A questo riguardo si narrano ancora oggi numerosi episodi più o meno tragici o aneddoti divertenti come quello accaduto alla mia bisnonna paterna Oliva Martelloni, la quale tornava dalla campagna dopo una giornata di vendemmia. Dai filari della sua vigna aveva colto dei grappoli d’uva. Li aveva poi messi in un canestro di vimini coprendoli con un fazzolettone a quadri, uno di quelli caratteristici dei contadini di una volta. Prima di giungere a Cori, alla Buzia, incappò in un posto di blocco della Finanza che perquisiva i viandanti e i carrettieri al fine di scovare tabacco di contrabbando. La perquisizione richiedeva tempo e dunque si era formata una fila di carretti e muli, che trasportavano le uve vendemmiate, in attesa di passare. Un finanziere, vedendola sola, le si avvicinò e le disse:
– Buona donna, cosa porti nel canestro?
– Ma gnènte finanzie’…è na cria d’uva pella cena.
Il militare non avendo dimestichezza col nostro dialetto ribatté:
– Allora se porti una creatura puoi anche passare.
Poi rivoltosi ai suoi commilitoni:
– Fate passare questa donna che porta una creatura nel canestro e deve darle la cena, non può aspettare tutta la fila.
Così con sua grande sorpresa evitò la coda e sfilò velocemente verso casa col suo bel cesto carico d’uva.

I finanzieri andavano persino ad ispezionare le case dei consumatori ritenuti potenziali acquirenti del tabacco di contrabbando e se ne trovavano venivano multati. Spesso avvenivano dei veri e propri scontri anche se difficilmente cruenti, ma un giorno di marzo (non si sa esattamente l’anno) accadde un fattaccio che scosse e commosse la comunità corese. In fondo ad un burrone, limitrofo alla strada che conduce a Norma, all’altezza del pozzo del Rosario (‘ncima ‘lla pietra ‘glio Turione) attraverso la montagna, venne ritrovato il corpo di un giovane finanziere da pochi giorni facente parte della Milizia di zona. Il cadavere non presentava ferite superficiali. Era precipitato dall’alto, probabilmente scaraventato di sotto dopo uno scontro corpo a corpo. Non si seppe mai chi fu il colpevole o i colpevoli del delitto che rimase così impunito. Dopo solenni funerali, il giovane venne tumulato in un angolo solitario del cimitero di Cori e non si parlò più né di lui, né dell’omicidio. Però i coresi non hanno consentito del tutto che quel tragico episodio cadesse nell’oblio chiamando quel luogo dove era stato ritrovato il corpo del giovane militare “LA RAVE ‘GLIO FINANZIERE”.

Patrizia Carucci

Essiccazione del tabacco sulla Piazza di Giulianello di Cori
Una pianta di tabacco qualità “Erzegovina” detto “Zecoina” (foto di Sigfrido Pistilli)
Fioritura di tabacco qualità “Erzegovina” detto “Zecoina” (foto di Sigfrido Pistilli)

Carciofi fino a giugno: la promessa da Tor Tre Ponti (con un paio di ricette)

Arriva da Tor Tre Ponti una promessa: questa estate potremo mangiare carciofi locali, a giugno e persino a luglio. La sfida viene dall’azienda Daniela Calvani, che aderisce alla rete di sviluppo locale dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino.
Felice Calvani, contadino, ci spiega come questo sarà possibile:
“Per arrivare a giugno e luglio, utilizzeremo un impianto di nebulizzazione che permetterà alle piante di carciofo di tollerare le temperature elevate. Una nebulizzazione ben calibrata evita anche lo spreco d’acqua. Insomma, a maggio e giugno potrà fare molto caldo, e questo è un sistema per abbassare le temperature e renderle sostenibili. D’altra parte – aggiunge Felice – in queste settimane stiamo proteggendo le piante di carciofo dal problema inverso: le gelate notturne. Per evitarle stiamo coprendo la parte più delicata della pianta con della paglia, come se fosse un cappottino”.
I primi, ottimi, carciofi sono già in vendita presso l’azienda.

Qui sotto Gloria Monti ci ha lasciato una ricetta semplice per cucinare i carciofi.

Ingredienti.
Carciofi, olio, aglio, mentuccia. Se piace, si può aggiungere anche peperoncino.
Preparazione.
Mondare i carciofi, conservando il cuore e un pezzo di gambo. In questo caso i gambi sono teneri, quindi è possibile salvarne diversi centimetri. Mettere i carciofi in acqua fredda con succo di limone per evitare l’ossidazione.
I carciofi si possono cuocere a pezzi oppure interi.
Se a pezzi, si dividono i carciofi in 4 e poi si mettono con aglio, mentuccia, olio e un po’ d’acqua in padella. Si copre tutto con il coperchio e si lasciano cuocere. I carciofi sono pronti in 10, al massimo 15 minuti (in questo caso i carciofi sono tenerissimi e si cuociono rapidamente). In ogni caso, quando la forchetta si infila alla base del carciofo, si può spegnere il fuoco.
Se invece si preparano interi, li si mette in padella a testa in giù con il ripieno al centro di aglio e mentuccia.
Prima di chiudere il coperchio, è preferibile coprire con un foglio di carta di alluminio.

Ed ecco un’altra ricetta, stavolta di Felice Calvani: insalata di carciofi.

Ingredienti.
Carciofi, olio, pepe, sale, parmigiano reggiano.
Preparazione.
Mondare i carciofi, conservando il cuore e un pezzo di gambo. Mettere i carciofi in acqua fredda con succo di limone per evitare l’ossidazione. Asciugare con cura i carciofi.
Tagliare finemente i carciofi, alla julienne. Disporre i carciofi tagliati in un piatto da antipasto, aggiungere un filo d’olio extravergine d’oliva a crudo, un pizzico di sale, scaglie di parmigiano reggiano e (se piace) una passata di pepe macinato fresco.
P.S. Per gustare l’insalata di carciofi a crudo, i carciofi devono essere di primissima qualità e molto teneri.

Qui sotto alcune fotografie di Gloria Monti.

Che caciara! (di Patrizia Carucci)

I coresi hanno sempre vissuto lavorando la terra, una comunità radicalmente contadina, non sono mai stati pastori.

Dagli inizi del Novecento però si sono insediati in pianta stabile diverse famiglie dedite alla pastorizia come i Giansanti, i Toselli, Lenzini, Cipriani, Tagliaferri, Battisti, Raponi, Giordani, Fontana, Restante, Caprara, Marchioni. Tutti sono stati pastori transumanti, provenienti dai paesi della Ciociaria, Supino, Morolo, Carpineto, Guarcino, Gorga, Filettino, che giunti sul territorio corese sono diventati per lo più stanziali grazie al buon clima e l’abbondanza di pascoli.

La transumanza è una pratica di migrazione stagionale di greggi, mandrie e pastori in differenti zone climatiche lungo le vie seminaturali dei tratturi. In Italia viene ancora praticata nelle regioni del Centro e del Mezzogiorno e anche nell’area alpina, in Val Senales e in Alto Adige, dove lo spostamento avviene in verticale col cambio quota dell’alpeggio a differenza del Centro-Sud dove invece i pastori si spostano in orizzontale Est-Ovest.

Nel 2019 l’Italia ha ottenuto un grande risultato: ha presentato la candidatura della transumanza nel patrimonio immateriale dell’ Unesco… e ha vinto!

La proposta è partita dal Molise e l’Italia è stata capofila nel progetto al quale hanno partecipato anche la Grecia e l’Austria. Dalle valli dell’Alto Adige al Tavoliere di Puglia, gli oltre 60 mila allevamenti con 7,2 milioni di capi ovini sono una ricchezza che finalmente ha trovato un riconoscimento internazionale.

Quante volte facendo confusione siete stati ripresi con:
“Ahooo… ma che è ssa CACIARA” oppure “smettàtela de fa CACIARA!”

La parola CACIARA deriva da “caciaia”, cioè il locale dove i pastori producono e lasciano stagionare il formaggio. Le caciare sono diffuse nell’Italia Centrale fra Lazio, Abruzzo e Molise. Si tratta di strutture semplicissime costruite con la nuda pietra senza l’ausilio di malte o cementi, o con assi di legno (in foto).

Ai pastori serviva un luogo pratico da poter costruire con facilità anche per riporre gli attrezzi, rifugiarsi in caso di maltempo e far stagionare il formaggio.

Ma cosa c’entra il formaggio col chiasso? Ebbene, spesso i pastori che raccoglievano il latte per la produzione casearia pare che litigassero fra loro per questioni di appropriazione indebita delle scorte, sbagli delle miscele di latte che conferivano alla caciaia, errori nei pagamenti. Da ciò nascevano discussioni accese e risse anche violente. Da qui è scaturito il modo di dire “stíte a ffa na caciara”. Non solo… nella caciara i formaggi venivano “schiaffeggiati” e rivoltati sulle assi di stagionatura e ciò produceva molto rumore. Da qui la definizione di “caciara” come luogo chiassoso.

Nell’Agro Pontino bonificato la caciara stava a Pantanaccio. Lì vicino c’era l’unica osteria di Littoria dove i pastori provenienti dalla Ciociaria, assetati, si rifocillavano e dai a far caciara… come racconta Pennacchi nel suo famoso romanzo “Canale Mussolini”.

Patrizia Carucci, amministratrice del gruppo Cori Mé Bbéglio

Pubblichiamo alcune fotografie di “capanne di muro” nel territorio di Cori, ricoveri utilizzati (anche come caciare) dai pastori transumanti provenienti dalla Ciociaria. Nella maggioranza dei casi avevano base cilindrica e tetto conico. Le fotografie sono di Pietro Guidi (anche lui amministratore del gruppo Cori Mé Bbéglio) e Nicola Cecchi, che ringraziamo per la collaborazione.

Fotografia di Pietro Guidi
Fotografia di Pietro Guidi
Fotografia di Pietro Guidi
Fotografia di Nicola Cecchi. La capanna si trova tra gli ulivi in località Perunio.
Fotografia di Nicola Cecchi
Il ricovero localizzato su Google Maps (al centro sulla destra tra gli ulivi)

Conversazioni pontine: Angelo Fàvaro

Angelo Fàvaro è da oltre venti anni docente di materie letterarie nei licei della provincia di Latina e Roma ed è anche Professore incaricato presso l’Università “Tor Vergata” di Roma. Ha vissuto a lungo a Sabaudia, città con cui mantiene profondi legami, affettivi e culturali. Ricercatore e scrittore poliedrico, animatore culturale infaticabile e attento ai temi/problemi della contemporaneità, ha organizzato decine di convegni, giornate di studio, eventi nella città pontina e all’estero, sufficiente pensare al Convegno internazionale pirandelliano presso Salonicco o il Convegno internazionale per il quarantesimo anniversario dalla morte di Pasolini a Praga. Approfittiamo della sua disponibilità per una piacevole conversazione.

(Antonio Saccoccio) Buongiorno Prof. Fàvaro, lei è impegnato da decenni a Sabaudia sul fronte artistico e culturale. Partiamo con un risultato conseguito proprio quest’anno: Sabaudia è ufficialmente diventata “Città di Moravia”.

(Angelo Fàvaro) Sabaudia è la cittadina pontina più amata e rinomata dell’Agro, per numerose ragioni, che non è questa l’occasione per eviscerare, sufficiente riflettere sulla sua posizione, sulla sua architettura, sulla ricchezza antropologica e culturale dalla Fondazione ad oggi. Sono onorato e felice di averci vissuto dai miei tre fino ai trent’anni circa, e vi ho ancora domicilio. Sì, dal 2020 Sabaudia è ormai non solo nella vulgata, ma anche formalmente “Città di Moravia”, fra gli altri appellativi o epiteti che potrebbero connotarne la plurima vocazione. Da tempo, tento questa operazione, tutta squisitamente culturale e, finalmente, si è riusciti nel varo di un logo e nella formazione di un brand, per utilizzare la terminologia più esatta, che è stato registrato, presso la Regione Lazio. Adesso, Sabaudia può essere associata alla presenza dell’intellettuale, romanziere, critico Alberto Moravia, alle sue opere, al suo pensiero, al suo impegno ecologico, europeista e latamente umanitario. A trent’anni dalla scomparsa, scopo precipuo e specifico, dopo l’intitolazione di una piazza, è stato quello di continuare a far conoscere, valorizzare e diffondere il patrimonio di pensiero, di civiltà, d’arte e di letteratura contenuto nelle opere e insito, ormai iconicamente, nella figura-persona di Alberto Moravia.

Il logo ideato da Angelo Fàvaro e realizzato da Giovanni La Rosa, donato al Comune di Sabaudia.

(A.S.) Quale nesso fra un luogo, in questo caso Sabaudia, e un autore, Moravia?

(A.F.) Ho un’idea precisa. Io ritengo che ogni opera d’arte nasca in precisi contesti: situazionale, e mi riferisco alla situazione individuale di chi agisce creativamente, alla sua storia personale, a quel momento preciso della sua esistenza nel quale l’opera viene dapprima ideata e poi realizzata; epocale, ovvero storico, politico, sociale dell’epoca nella quale l’opera vede la luce e che ha fortemente sollecitato l’autore; infine, ambientale-naturale, ed è semplice intuire come senza la Roma del fascismo Moravia non avrebbe mai potuto immaginare quel capolavoro che è La romana, o senza l’esperienza dell’otto settembre e dell’autoconfino a Fondi sulle macere, non sarebbe mai stato scritto quello straordinario romanzo sulla guerra che è La ciociara. Egualmente ritengo che dall’esperienza a Sabaudia siano nati alcuni racconti de La cosa e de La villa del venerdì, in parte anche tutta l’ultima produzione dello scrittore, anche se della cittadina pontina non c’è alcun cenno. Inoltre, nel 1980, Moravia stesso aveva dichiarato: «Il mare che amo? Quello del Circeo, quello di Sabaudia, non ancora turistica e non ancora mondana e, particolare importante per chi lavora, distante un’ora e mezzo di macchina da Roma».

(A.S.) Anche se giova rimembrare che il suo primo interesse, rispetto a progetti e convegni, era stato rivolto a Pasolini, se non erro.

(A.F.) È corretto, invero, ho organizzato tre giornate di studi dedicati a Pier Paolo Pasolini, tutte con il medesimo titolo: “Un sordo sottobosco dove tutto è natura…”, nel 2005, nel 2006, nel 2007, ma soltanto della prima sono stati stampati gli atti. Non si potrebbe nemmeno immaginare di parlare di cultura e di letteratura a Sabaudia senza ricorrere a Pasolini, Moravia, Maraini, Bertolucci, Tornabuoni, Siciliano, Schifano, Stanislao Nievo, Emilio Greco, Lorenzo Indrimi, Igor Man, Gabriella Sobrino, ancora oggi Rodolfo Carelli… la lista è ancora lunga.

(A.S.) Esattamente dieci anni fa lei ha curato a Sabaudia un importante convegno internazionale: “Alberto Moravia e gli amici”. Ci può parlare degli esiti di quella giornata di studi, di queste amicizie, anche in relazione al ruolo giocato dalla città di Sabaudia?

(A.F.) Sul lungomare di Sabaudia, c’è una villetta bifamiliare con due grandi finestre, come due occhi, ormai sovente serrati, rivolti alla duna, fra mare e cielo. Osservando dalla strada, il lato destro era stato fatto edificare per Pasolini, il sinistro per Moravia. Entrambi avevano scoperto la cittadina pontina sul finire degli anni Sessanta, e per ragioni differenti ne erano rimasti affascinati: a Moravia sembrava di assaporare qualcosa della “sua” Africa; a Pasolini, invece, pareva di riscoprire qualcosa di umano e di non conformista, nonostante il progetto fosse stato approvato in epoca fascista e la città edificata in poco più di trecento giorni, con una inaugurazione fascistissima. Pasolini fu ucciso proprio poco prima della conclusione dei lavori della bifamiliare, nel 1975; Moravia al contrario vi soggiornò lungamente d’estate, ma anche in primavera e in autunno, raramente d’inverno; quel mattino del 26 settembre 1990, nel quale fu trovato morto nella sua abitazione a Lungotevere della Vittoria 1, a Roma, avrebbe dovuto recarsi a prendere delle scarpe rimaste lì a Sabaudia, accompagnato da Dacia Maraini. Mi piace pensare che, mentre si radeva, stesse ripercorrendo mentalmente il tragitto e tutto quel che avrebbe voluto fare prima di tornare a Roma, magari accarezzando l’idea, se il tempo fosse stato ancora piacevole e caldo, di rimanere qualche giorno al mare.
Quando ho, dunque, progettato quel convegno internazionale, avevo in mente, diciamo scientificamente tre direttrici, ancora insondate in questo ambito: in primo luogo un autore come Moravia, che aveva attraversato da protagonista il XX secolo, aveva assegnato un’importanza essenziale all’amicizia, ai rapporti con sodali giovani, a volte giovanissimi, a ritroso, quando egli stesso era poco più che ventenne con uomini e donne a volte di età molto lontana dalla sua, penso a Benedetto Croce o al critico d’arte Bernard Berenson; in secondo luogo avrei voluto sfatare l’idea del “Clan Moravia”, ovvero di una rete di relazioni fondate su reciproci favori e su un diffuso opportunismo; infine, in terzo luogo, avrei voluto offrire uno strumento di riflessione squisitamente letteraria: la relazione amicale come motivo di interscambio di idee e di progetti, come confronto, penso a Calvino che incontra Moravia, alla fine degli anni Cinquanta, e ritenendo ripetitivi e ormai esaurita la vena dei Racconti romani gli dice «Ma quando la pianti?».
Sabaudia è stata un collettore di incontri, di rapporti, di amicizie per Moravia: Dacia arredò la villetta, lunghe e piacevoli le conversazioni con Bernardo Bertolucci, Dario Bellezza, sovente ospite di casa Moravia, ultimi ma non ultimi, fra i molti ospiti, Gianni Barcelloni-Corte, Enzo Siciliano e Alain Elkann, che proprio fra Roma, Sabaudia e Parigi compose con Alberto la Vita di Moravia. Il romanziere romano aveva compreso che la pace, l’atmosfera, la dolcezza climatica e il garbo di Sabaudia e dei suoi abitanti erano gli ingredienti perfetti per la conversazione, lo scambio intellettuale e umano, necessari all’amicizia e non meno alla scrittura.

René de Ceccatty, autore di una biografia di Moravia e tra i relatori al convegno di Sabaudia, fotografato davanti alla villetta dello scrittore romano.

Una nota non troppo marginale: a Sabaudia, nella porzione pasoliniana della bifamiliare, soggiornava Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini, e sua ospite era una lettrice di spagnolo alla «Sapienza», dopo esserlo stata all’università di Palermo, Carmen Llera: era il 1982, la giovane donna, appena ventinovenne, voleva intervistare Moravia per completare la sua tesi su Luis Buñuel, era alla seconda laurea. Galeotti furono quel mare, quella duna dorata, quella cittadina immersa nel verde: Moravia si innamorò perdutamente di quella seducente, colta, misteriosa spagnola. Nel 1986, il matrimonio, non prima che lo scrittore de Gli indifferenti le avesse dedicato la raccolta di racconti La cosa.
Lo scorso anno, inoltre, ho curato un importante progetto moraviano sul tema dell’indifferenza: a novant’anni dalla pubblicazione del romanzo si è svolto a Sabaudia un dibattito con alcuni noti intellettuali, fra i quali Gianni Cuperlo, Giulio Ferroni, Annamaria Andreoli, Rino Caputo.
A Sabaudia, ho altresì tentato di affrontare e considerare la categoria del “conformismo”, che Moravia aveva già esaminato nel romanzo Il conformista (1951), film nel 1970 per la regia di Bernardo Bertolucci, ma che Pasolini ha egualmente sondato in romanzi, poesie, film. Il 26 e 27 febbraio 2015 ho organizzato un convegno internazionale dal titolo Moravia, Pasolini e il conformismo, che ha avuto un interessante conclusione a Casarsa, la cittadina friulana amata da Pasolini, il 21 marzo dello stesso anno. Dagli stimolanti interventi e dalle sollecitazioni successive nel 2018 ha visto la luce un volume miscellaneo sul medesimo argomento.

(A.S.) Un rapporto privilegiato lo aveva senz’altro con Piero Paolo Pasolini, con cui condivideva anche la già menzionata villetta al mare.

(A.F.) Pasolini e Moravia furono amici, più che amici, fratelli, o… in una relazione indefinibile secondo le categorie comuni: si potrebbe pensare ad un rapporto padre-figlio, ma dove il padre sovente giocava il ruolo del figlio, e il figlio quello di un padre risoluto e censorio, quando non proprio di severo rimprovero. A Sabaudia, prima di edificare la bifamiliare, furono ospiti nella villetta Antonelli: lavorano, parlavano, discutevano. Un’estate del 1970: Alberto aveva scritto un soggetto, Abramo in Africa; Dacia e Pier Paolo lavoravano alla sceneggiatura, con zelo e con precisione, discutendone animatamente, mutando in parte il saggetto orIginale. Nel 1973, Gianni Barcelloni, dopo vari sopralluoghi e ricerche, finalmente portava nelle sale quel capolavoro, quasi dimenticato. Un film “scritto” e pensato a Sabaudia, per parlare del neocolonialismo e dello sfruttamento in Africa.

(A.S.) C’erano luoghi che Moravia preferiva a Sabaudia? Luoghi che frequentava abitualmente?

(A.F.)  Sì, Moravia trascorreva lunghe ore al Bar Italia, seduto al suo tavolino, sorseggiava bevande analcoliche, conversava con gli amici, leggeva i giornali, non amava mettere autografi sui libri, né che gli si facessero domande personali, i sabaudiani sono sempre stati rispettosi. Andava a comprare il pesce nella pescheria, che era esattamente collocata dove oggi si trova, in Piazza Santa Barbara, una cantina di ottimi vini locali. Quasi ogni giorno, si recava ad acquistare nella tabaccheria-cartoleria Scavazza pennarelli neri e blocchi ad anelli. Si fermava per la spesa quotidiana di generi alimentari da Rossetti o da Scarton. Entrava qualche volta anche dalla signora Eufemia, che gestiva una notissima bottega di ferramenta, non saprei esattamente cosa vi acquistasse. Camminava sorreggendosi ad un bastone, passeggiando verso la chiesa e arrivava fino all’edificio della Maternità e Infanzia. La presenza di Moravia a Sabaudia è stata una presenza reale, concreta, tutti lo conoscevano e lo salutavano, non rimaneva, con gli odierni “vip” o intellettuali, chiuso nella sua villa o soltanto a passeggiare sulla spiaggia, che comunque amava, ma viveva la città; tutti si potevano intrattenere con lui brevemente, perché era impaziente.

(A.S.) Tra l’altro lei incontrò anche personalmente Moravia…

(A.F.) Ho incontrato numerose volte il romanziere a Sabaudia, come tutti del resto, e diciamo che ho “parlato” con Moravia direttamente in due sole occasioni. Sono ricordi personali, dunque in alcun modo significativi rispetto agli studi o alla ricerca letteraria. Era il 1983, avevo sedici anni, ed ero in competizione con una mia compagna di classe, Titti: il mio desiderio più grande sarebbe stato poter conoscere Italo Calvino, avevo letto tutto quel che aveva scritto, il mio testo preferito era la raccolta di racconti Le cosmicomiche; al contrario la mia amica, che vive ancora a Sabaudia ed è un’ottima primaria del pronto soccorso di un ospedale, era un’appassionata lettrice di Moravia e diceva di conoscere Calvino. La sfida era semplice: tu mi porti l’autografo di Moravia e me lo presenti, ed io ti faccio conoscere Calvino. Era un giorno di fine giugno, gironzolando per il centro, vedo Moravia al Bar Italia: mi faccio coraggio, nonostante fosse accigliato e molto concentrato a scrivere su un blocco, mi avvicino. Attendo qualche istante che si accorga di me, e quando mi osserva, prontamente saluto con un quasi urlato “buon pomeriggio”. Era noto fosse un po’ sordo. Lui secco: «Chi sei? Cosa vuoi? Perché stai lì impalato?» vedo che fa fatica a mantenersi serio. Sorrido, e rispondo sempre a voce bene alta: «Mi chiamo Angelo Favaro. Sono uno studente del liceo classico. Sono qui perché c’è una mia amica…» non mi fa terminare la frase. Interviene: «Amica? Una donna?» Rispondo: «Sì, una mia amica, che vorrebbe conoscerla, non so se…». Prende in mano il bastone che aveva accanto alla sedia di platica del Bar Italia, e lo alza e comincia a sbatterlo sul tavolino: «Basta con le donne! Basta! Vai via! E lasciami in pace. Stai lontano anche tu dalle donne» urla. Mi allontano sconsolato, per non essere riuscito a compiere la missione che non mi era parsa proprio impossibile. La seconda volta, è stata qualche anno dopo, forse proprio nel 1990, d’ estate. Era quasi sera, mi trovavo a passare nei pressi dell’ancora, correvo ad una riunione in parrocchia. Lui camminava con due amici nella direzione opposta. Uno dei due amici teneva impilati alcuni libretti, di piccole dimensioni di un bel blu oltremare. «Fermati! Vieni qui!» si fa passare un libretto e me lo dona: «Tiè, te lo regalo, e leggilo. Non legge più nessuno, ma queste so’ poche pagine!» Prendo il libretto. Sorrido. E dico soltanto: «Grazie, no a me piace leggere. E tanto». «Ah, è perché allora non hai nulla da fare.» Avrei voluto rispondere e dire tutto quello che pensavo, ma ero già in ritardo alla riunione. Quindi ho soltanto salutato e sono corso via.

(A.S.) La sua attenzione non è dedicata solo alla Sabaudia del Novecento. Ricordo anni fa la sua partecipazione in prima linea al progetto “Villa di Domiziano: percorsi”. E un fondamentale convegno da lei curato, “Domitianus dominus et deus”…

(A.F.) Il Progetto Villa di Domiziano fu curato dalla dott.ssa Daniela Carfagna, e fu lei a coinvolgermi in un’avventura entusiasmante, culminata in tre volumi: gli atti di un convegno dedicato all’imperatore romano, una guida-percorso archeologico, una antologia poetica d’età domizianea, a mia cura ed in uno spettacolo teatrale, scritto, diretto e messo in scena da me proprio nel sito archeologico della Villa di Domiziano. Il territorio di Sabaudia è un territorio ricco di entusiasmanti esperienze naturalistiche e geologiche, storiche e sociali, antropologiche e architettoniche, nell’agricoltura e nell’allevamento, artistiche e letterarie, che a mio avviso andrebbero costantemente rinvigorite e fatte conoscere, praticate. Il Parco Nazionale del Circeo in particolare contiene una fauna, una flora ed una varietà di ambienti naturali, contenuti in relativamente pochi km2, che pochi altri luoghi al mondo possono vantare. La cultura è un bene prezioso e al contempo una risorsa economica, se amministrata con intelligenza e con rispetto, secondo modalità ecosostenibili.

(A.S.) Lei ha vissuto l’infanzia, l’adolescenza e parte della giovinezza a Sabaudia. Le sembra cambiata oggi la città?

(A.F.) Sabaudia mantiene alcuni ambienti-elementi ben conservati e curati, in altri casi si nota un certo abbandono, non voglio dire degrado. Quel che ho notato nel corso degli anni è stato un lento e progressivo depauperamento di presenze giovanili e di attività produttive, ovviamente compatibili con il territorio. Mancano, a mio avviso, idee trainanti per la città e politiche che guardino un po’ più lontano, varchino le esigenze/emergenze del presente. Negli anni della mia adolescenza ho visto edificare numerosi nuclei abitativi, fino alla saturazione degli spazi, seconde case vacanze, ma non hotel; ho visto fallire aziende importanti e cessare attività; ho constatato la riduzione delle presenze nelle varie caserme (Marina, Esercito, Finanza). In questi ultimi anni, queste seconde case sono sempre chiuse, pressoché disabitate nel corso dell’anno. Nessuna nuova azienda è stata aperta. Nessuna nuova attività produttiva. Il discorso è complesso. Dico soltanto, al momento, che bisognerebbe organizzare gruppi di lavoro con intellettuali, architetti, storici, economisti, persone competenti e a conoscenza della “situazione-realtà Sabaudia”, fra Parco Nazionale e vincoli ambientali etc., coinvolgendo anche i cittadini volenterosi, in grado di offrire un contributo di idee allo sviluppo della città e del suo territorio, negli ambiti di intervento più urgenti: economia, lavoro, convivenza con nuove etnie sul territorio, accoglienza e inclusione, scuola e università, ricerca e sport, cultura e turismo, natura-agricoltura e progetti per un territorio completamente green dal punto di vista energetico e produttivo; in particolare bisognerebbe cominciare a ragionare sulle possibilità di progetti europei finanziabili per la sopravvivenza della cittadina e dei suoi abitanti.

(A.S.) È d’obbligo concludere con una domanda sui giorni che viviamo e che ci attendono. Dopo aver raggiunto l’obiettivo di “Sabaudia città di Moravia”, ha altre idee da proporre per il presente e il futuro di Sabaudia o più in generale dell’Agro Pontino?

(A.F.) Idee molte… molte sorprese… ma è essenziale cominciare a eliminare fazioni e divisioni, e, invece, mettere a fuoco la sinergia delle competenze, della buona volontà, delle visioni, dove quel che conta non è né il narcisismo personalistico, né il protagonismo affaristico. Sabaudia è al centro della provincia di Latina. Semplicemente osservando la mappa di questo vario e non troppo vasto territorio se ne colgono la ricchezza, la varietà, la bellezza. Ecco, si potrebbe cominciare da qui. Basta saper conoscere e riconoscere le opportunità che questa natura, la nostra storia plurimillenaria, l’incontro di popoli, con usi, costumi, tradizioni differenti, le architetture e le colture/culture, le arti offrono, per progettare il nostro futuro. In primis, sarebbe necessario “connettersi”, mettere in comune il patrimonio di ogni realtà locale, dalle cittadine ai più piccoli borghi, conoscersi, evidenziare le peculiarità che rendono unici luoghi-prodotti, e farli poi conoscere. Considerare i vincoli biofisici come un’opportunità e una sfida, non come un limite: ecco, io ritengo che la contraddizione sia contenuta nel concetto stesso di sviluppo industriale ed economico “infinito”, nella mercificazione di ogni bene che viene ormai considerato “bene di consumo”; la chiave di volta è nel riconoscere le potenzialità dello sviluppo sostenibile a base ecologica, culturale, di ricerca, non negare ma valorizzare la natura, con un intento di ricerca estetica, sociale, psicologica. Il benessere non si fonda sul rapporto bruto produzione-consumo, ormai lo abbiamo compreso: il nostro territorio offre possibilità di una sana e buona vita. La parola “magica” è cultura, grazie alla quale si può affrontare la novità e governare la complessità. Potrei proporre numerosi esempi pratici… ma non occorre. Ci si prenda una giornata di relax e si faccia anche soltanto una bella passeggiata in bicicletta da Sabaudia a Fondi, o da Sabaudia a Priverno… e si capirà facilmente.

(A.S.) Grazie davvero per queste parole intense e generose, cariche di significato e di speranza. Speriamo che il suo impegno in ambito culturale sia da esempio per coloro che, oggi adolescenti, avranno il compito nei prossimi decenni di contribuire allo sviluppo sostenibile di questo territorio.

Proposte e auguri per l’Ecomuseo (webinar)

Intervengono, propongono, dialogano, salutano:

Enrico FORTE (Promotore della Legge sugli Ecomusei)
Chiara BARBATO, Felice CALVANI, Nico CASCIANELLI, Simona DE PICCOLI, Rita DE STEFANO, Ornella DONZELLI, Fabio Massimo FILIPPI, Manuela FRANCESCONI, Mauro IBERITE, Giuseppe LATTANZI, Ernesto MIGLIORI, Riccardo NOVAGA, Nestore PIETROSANTI, Mario ROMANZI, Stefano SALBITANI, Giorgio SERRA, Giulia SIRGIOVANNI, Francesco TETRO, Roberto VALLECOCCIA, Elisabetta ZARALLI

Coordinano: Angelo VALERIO e Antonio SACCOCCIO

Per partecipare:
https://www.gotomeet.me/lunitepo/oltre-la-pandemia-proposte-progetti-e-auguri

Lo zuccherificio di Littoria

L’ex-zuccherificio di Latina (2020)

A partire dal 1935, il fascismo decise di creare in Agro Pontino un’area dedicata alla barbabietola e alla sua trasformazione in zucchero. Questa attività doveva andare di pari passo con la più nota “battaglia del grano”.

Per realizzare lo stabilimento dello zuccherificio venne scelta un’area di 25 ettari su quella che oggi è Via delle Industrie. Lavorarono ai cantieri diverse centinaia di operai. Lungo tutto il  corpo di fabbrica principale fu scritto: “Costruito in dieci mesi durante l’assedio economico”. Di fronte allo stabilimento e nei viali interni venne realizzato un elegante giardino. La fabbrica fu dotata di tecnologia all’avanguardia di fabbricazione tedesca. Agli operai venne insegnato come utilizzare i nuovi macchinari.

LITTORIA: Lo zuccherificio (cartolina – 10,5 cm x 15 cm)
16/09/1940 (data autografa e timbro di spedizione)
Ed. E. Verdesi – Roma – Proprietà Riserv. Fascio Littoria
Dall’Archivio Fotografico Digitale della Libera Università della Terra e dei Popoli.
Provenienza e proprietà: Archivio Libera Università della Terra e dei Popoli (Sermoneta).

«E non ci si limita allo stabilimento e al palazzo uffici: nel vicino villaggio dello Scalo la società fa costruire quattro palazzine a schiera (ora tutte demolite), lungo via della Stazione, per alloggiarvi le famiglie degli operai, altre due palazzine proprio al centro del borgo, pure destinate ad alloggi per gli operai e dotate anche di un negozio dispensa (entrambe le costruzioni sono state ora acquisite dal Comune e destinate a centro sociale); e il “Palazzo Rosso” sempre al centro dello Scalo: appartamenti per funzionari e impiegati e una foresteria. Inoltre, voluto dal senatore Ugo Ciancarelli, amministratore delegato della Società Italiana Zuccheri, l’asilo “Valentina Ciancarelli”, un’opera sociale, in favore delle madri lavoratrici, in memoria della figlia Valentina, morta di parto. Spesa: 230 mila lire. Ciancarelli ne offre in proprio 35 mila, 112 mila sono messe a disposizione dalla società e il resto dalle imprese impegnate nella costruzione dello zuccherificio. È il concetto di “fabbrica totale”, che organizza non solo il lavoro, ma almeno in parte anche la vita quotidiana dei dipendenti fuori dallo stabilimento: abitazioni, dispensa, ritrovo, servizi sociali»[1].

Il 19 agosto del 1936, dopo appena 10 mesi di lavori, Benito Mussolini inaugura lo zuccherificio. Il Giornale Luce del 26/08/1936 (B0946) raccontava: «Giornata di vibrante entusiasmo a Littoria per la visita del Duce, che inaugura una nuova importantissima opera venuta ad arricchire il primo Comune dell’Agro ormai redento. Il grande zuccherificio, sorto in soli 10 mesi nei pressi di Littoria, cui è collegate mediante un ampio raccordo ferroviario. Enormi cumuli di bietole raccolte nei campi vengono accentrate nei vastissimi silos, donde, per mezzo di una corrente d’acqua, vengono convogliati nello stabilimento, dove funziona un complesso e perfettissimo macchinario totalmente costruito in Italia per la produzione dello zucchero»[2].

Un determinato numero di poderi fu destinato alla produzione di barbabietole. Per evitare l’abbandono dei campi, ai contadini e agli assegnatari di poderi è vietato lavorare nello zuccherificio, né da dipendenti fissi, né da stagionali. «La maggior parte delle colture a bietola, il primo anno, si concentra nella zona di Mesa e Borgo Faiti: 939 ettari, con un prodotto di 120.474 quintali, pari a 18 mila 524 di zucchero cristallizzato, cioè non raffinato. Non è molto, ma si tratta di una campagna ancora quasi sperimentale. Nel 1937, secondo anno di attività, già si raddoppia»[3].

Durante la seconda guerra lo stabilimento continua a funzionare, fino allo sbarco di Anzio del 1944, quando gli impianti si fermano per un anno. Già nel 1945 lo zuccherificio torna a produrre e a dare occupazione a un centinaio di dipendenti fissi e circa 500 stagionali. Dal 1955 la Società italiana per l’industria degli zuccheri gestisce direttamente l’impianto (viene sciolta la Saiap, Società Agricolo Industriale Agro Pontino). Nel frattempo in Agro Pontino diventa meno remunerativo destinare terreni alla barbabietola, che quindi inizia a giungere anche da altre zone del Lazio. Nel 1972 lo zuccherificio passa al gruppo Montesi di Padova. Negli anni successivi lo stabilimento viene ampiamente ristrutturato; dopo la chiusura degli stabilimenti di Rieti e di Foligno, il bacino bieticolo dello zuccherificio di Latina si estende ancora, fino a includere province al di fuori del Lazio (Grosseto, Terni e Perugia).

Nel 1984, dopo il fallimento del gruppo Montesi, lo stabilimento chiude, ma a seguito di una grande mobilitazione riapre l’anno successivo e raggiunge nell’anno del cinquantenario della nascita (1986) ancora produzioni notevoli. Nel 1989 lo zuccherificio viene ceduto alla Finanziaria Saccarifera Italo Iberica (SFIR).

All’inizio degli anni Novanta lo stabilimento chiuse. Poco dopo scoppiò la questione ecologica: a pochi passi dal centro abitato di Latina Scalo, l’area dello stabilimento conteneva centinaia di tonnellate di amianto e oli esausti. La stampa denunciò il rischio che stava correndo la popolazione. Nel 1996 il Comune di Latina (sindaco: Ajmone Finestra) ha acquistato dalla SFIR S.p.A. lo stabilimento di Latina Scalo e tutto il sito adiacente con una spese intorno ai 5 miliardi di lire, con l’obiettivo di bonificare e riqualificare la zona e la struttura e poi riconvertirla in Polo logistico integrato. Il progetto è stato realizzato con un finanziamento erogato dall’Unione europea. Furono rimossi e smaltiti oltre 200 tonnellate tra amianto, materiali ferrosi dei vecchi impianti dello zuccherificio e oli esausti. «Nel 2000 – ricorda Finestra – la seconda fase si concluse con la realizzazione della Piattaforma logistica (i lavori erano iniziati nel 1996-97) e venne costituita la SLM S.p.A. con soci il Comune di Latina al 95% e Camera di Commercio, Assindustria, Federlazio e un consorzio di operatori privati con il restante 5%»[4].

Negli anni Duemila la Società Logistica Merci S.p.A. ha accumulato debiti per diversi milioni di euro. Dal 2010 è in liquidazione.


[1] Emilio Drudi, “E le bietole addolcirono le fatiche: lo zuccherificio di Latina Scalo” in AA.VV., Memoria e Industria, Federlazio, Latina 1991, pagg.143-155.

[2] Giornale Luce, Mussolini inaugura a Littoria un grande zuccherificio, B094607, 26/08/1936.

[3] Emilio Drudi, “E le bietole addolcirono le fatiche: lo zuccherificio di Latina Scalo” in AA.VV., Memoria e Industria, Federlazio, Latina 1991, pagg.143-155.

[4] Ajmone Finestra, La mia verità sull’intermodale, 20/06/2010, https://www.latina24ore.it/latina/5866/finestra-la-mia-verita-sullintermodale/