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Anteprima itinerante della mostra “Viaggio intorno all’Agro Pontino” di Stefano Orlando

Venerdì 13, sabato 14 e domenica 15 giugno Roccagorga, Sezze e Cori ospiteranno tre importanti iniziative di valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, iniziative alla cui realizzazione ha collaborato l’Ecomuseo dell’Agro Pontino.

In occasione dei tre eventi saranno esposti in anteprima alcuni pannelli della mostra didattica “Viaggio intorno all’Agro Pontino. Scoprire la geografia del territorio attraverso le fotografie di Stefano Orlando”, curata da Stefano Orlando e Antonio Saccoccio.

I pannelli saranno esposti nei seguenti luoghi:

ROCCAGORGA – 13 giugno, dalle 17.30, Teatro Comunale – Piazza VI Gennaio

SEZZE – 14 giugno, dalle 18.00, Giardino Rosso Visciola – via del Guglietto 13

CORI – 15 giugno, dalle 17.30, Chiesa di San Francesco – Piazza San Francesco

Cori, Chiesa di San Francesco: presentazione del libro “Paesaggi invisibili. Sermoneta, Cori, Latina”

Il giorno 15 giugno 2025 a Cori, presso la Chiesa di San Francesco, sarà presentato il libro “Paesaggi invisibili. Sermoneta, Cori, Latina” , curato da Antonio Saccoccio e pubblicato all’interno dei “Quaderni dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino” (ed. Avanguardia 21).

La presentazione inizierà alle ore 17.30 e vedrà la partecipazione, oltre che del curatore del volume, di coloro che hanno contribuito a dare visibilità al paesaggio del Convento di San Francesco di Cori: Patrizia Carucci, Eleonora Palleschi, Alberto D’Alatri, Tommaso Conti, Pietro Guidi, Paolo Carotenuto.

“I paesaggi dell’olio e dell’olivo nella Bioregione Pontina” (documentario)

“I paesaggi dell’olio e dell’olivo nella Bioregione Pontina”, documentario ideato e realizzato dall’Ecomuseo dell’Agro Pontino in collaborazione con la CAPOL e il CERSITES Università Sapienza di Roma.
Regia: Christian Antonilli
Coordinamento scientifico: Antonio Saccoccio
Nel documentario interventi di Luigi Centauri, Francesco Tetro, Alberto Bono, Paola Ghione, Mauro Morbidelli, Padre Andrea Dante Rossi, Alberto Budoni, Flaminio Muraglia, Ernesto Migliori.

URL di YouTube

Documentario realizzato nell’ambito dell’Avviso pubblico finalizzato all’assegnazione di contributi a favore dei servizi culturali inseriti nelle organizzazioni regionali O.B.R., O.M.R. e O.A.R. per l’anno 2023 per attività e ammodernamento – Determinazione G12163 del 15.09.2023 Regione Lazio.

Il cibo nella terra del mito (convegno a Sezze, 26 febbraio 2023)

Nel corso del convegno “Il cibo nella terra del mito” (Sezze, 26 febbraio 2023, dalle ore 10) il coordinatore tecnico-scientifico dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino Antonio Saccoccio presenterà la relazione “L’ecomuseo come strumento di sviluppo locale”, con particolare riferimento alla cultura dell’ulivo e al suo paesaggio.

Convento di San Francesco a Cori (Pietro Guidi) – foto del mese di settembre

Per il mese di settembre abbiamo selezionato queste due fotografie di Pietro Guidi, scattate in occasione dell’incontro del 09/09 presso il Convento di San Francesco di Cori organizzato dall’Ecomuseo dell’Agro Pontino in collaborazione con il gruppo “Cori mé bbéglio”. Nel primo scatto il convento è ripreso dal giardino tra gli alberi di ulivo; il secondo è un suggestivo scorcio del chiostro.

Cori, chiostro del convento di San Francesco (fotografia di Pietro Guidi)

Pietro Guidi è nato a Cori il 31 luglio 1946. Dopo aver conseguito il diploma di abilitazione magistrale, ha lavorato per 4 anni a Roma presso il Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, successivamente come direttore negli uffici postali di Giulianello e Rocca Massima. Nutre fin da ragazzo la passione per la fotografia, dal 2008 si dedica con continuità a immortalare soggetti di ogni tipo, spaziando dalla natura ai paesaggi, dagli animali alla flora ecc. È amministratore di numerosi gruppi facebook, tra cui segnaliamo “Cori mé bbéglio”, “Borghi del Lazio” (oltre 160 mila iscritti), “Borghi della Marsica”, “Paesaggi suggestivi d’Italia” ecc.

Il Convento di San Francesco e la comunità di Cori (9 settembre 2022 – Cori)

Venerdì 9 settembre 2022, dalle ore 18, presso il Convento di San Francesco di Cori si svolgerà una passeggiata di scoperta e una conversazione comunitaria nell’ambito del progetto “Paesaggi invisibili”, ideato e curato dall’Ecomuseo dell’Agro Pontino. Sarà una nuova occasione per riflettere sul patrimonio culturale, materiale e immateriale, dei Monti Lepini.

Interverranno Patrizia Carucci (referente locale dell’Ecomuseo e amministratrice del gruppo locale Còri mé bbéglio), Alberto D’Alatri (responsabile de Il Circo della Farfalla onlus di Cori), Eleonora Palleschi (archeologa). Introdurranno brevemente l’incontro Antonio Saccoccio (coordinatore tecnico-scientifico dell’Ecomuseo) e Angelo Valerio (responsabile legale dell’Ecomuseo).
Saranno oggetto di esposizione e conversazione: la chiesa rinascimentale con il soffitto a cassettoni dorati, la pala d’altare e il coro ligneo; il chiostro e il boschetto; i frati francescani, il salasso e la questua, Fra’ Silvestro e Padre Raffaele; i francescani laici e le attività educative per l’integrazione sociale dei minori a rischio.
Si ringraziano per l’organizzazione dell’incontro: Patrizia Carucci, il gruppo Còri mé bbéglio, Alberto D’Alatri, Il Circo della Farfalla onlus.

La liva rossa (di Caterina Pistilli)

Queste sono le olive in salamoia, qualità Itrana ,”la liva rossa” (l’oliva grande) comunemente chiamata da noi coresi.
Tra marzo e aprile è il periodo della raccolta, quando la “liva” è completamente giunta a maturazione e con il primo caldo è tornata ad essere liscia e bella gonfia.
Viene coltivata nelle nostre splendide colline tra Cori, Giulianello, Rocca Massima e Norma; anche se talvolta le coltivazioni si spingono dai piedi delle montagne fino alle zone più a valle.
Ma, come sappiamo, la particolarità di questa qualità di ulivo è che necessita di zone non troppo umide, molto assolate, riparate da venti freddi e gelate notturne, per questo la produzione per eccellenza la si ha proprio in collina dove il clima è ottimo.
Da sempre a Cori si coltivavano olive da olio come la “liva menuta, Jo leccino ecc.”, dagli anni Settanta in poi vennero innestati la maggior parte dei nostri uliveti con questa fino ad allora nuova coltura e dopo alcuni anni fu un vero e proprio boom economico per la nostra piccola economia contadina.
Tant’è che alcuni anni fa una bottegante di abbigliamento e biancheria da corredo mi raccontò che a Cori quando c’era l’anno della “carecativa” girava l’economia del paese, si acquistavano corredi per le giovani aspiranti spose, si rinnovano tolette per la festa.
Sì, proprio così, la “carecativa”, perché questa tipica coltivazione non produce ogni anno, ma alterna un anno sì e l’altro no. Dal momento che a fine raccolta la pianta viene potata molto, e la potatura avviene tra aprile e maggio, non avrebbe possibilità di riprodurre il frutto per lo stesso anno.

La ricetta della nostra tradizione.
Per ogni kg di olive 70 grammi di sale.
Sistemare le olive pesate in un recipiente capiente e con la bocca larga, per facilitare il processo di riempimento e di fuoriuscita delle olive; unire la giusta percentuale di sale e colmare con acqua fredda.
Lasciare riposare le olive in dispensa o in cantina per 6 o 7 mesi.

P.s.
Acquistate le olive dai produttori locali in questo periodo per avere olive da pasto dolci e saporite per tutto l’anno, da gustare come antipasto.
Ideali anche per la preparazione di sughi o pietanze a base di carne alla cacciatora. Ottimi gli “spaghetti co Jo tunno e live”.

(testo e fotografie di Caterina Pistilli, tramite il gruppo CÒRI MÉ BBÉGLIO)

“Méso cacio frisco… e méso San Francisco” (racconto di Patrizia Carucci)

L’antica chiesa di S. Francesco, annessa all’omonimo convento e al suo bellissimo Chiostro, venne edificata nel 1521 fuori, ma non lontano, dal centro abitato di Cori. Negli ultimi decenni lo sviluppo urbanistico del paese ha fatto sì che ne sia stata quasi inglobata. È uno dei siti paesani più amati dai coresi e mèta di visite da parte dei fedeli e di turisti in cerca di pace e tranquillità… un luogo quasi mistico. Il complesso monumentale venne costruito in seguito ad un voto fatto dal Comune di Cori a due frati francescani che predicarono in città intorno alla metà del ‘400 portando pace e conforto fra gli abitanti del territorio. Il convento fu consegnato ai Frati nel 1526 insieme alla Chiesa che si caratterizza per il suo splendido soffitto in legno a cassettoni dorati, stucchi e quadri di valore, la preziosissima pala dell’altare maggiore ed il coro di noce intarsiato.

Tanti i frati che nel corso dei secoli si sono succeduti prestando il loro umile servizio presso quest’oasi religiosa e Padre Raffaele e Fra’ Silvestro sono stati quasi gli ultimi di quest’elenco secolare ad occuparsi del convento corese, pertanto il loro ricordo è ancora vivissimo nella memoria dei paesani. Con il loro instancabile lavoro hanno tenuto in vita il convento, la chiesa ed il giardino con il boschetto ad esso adiacente.

Fra’ Silvestro, al secolo Alessandro Sisti (1919-2001), era nato a Ferentino, dunque un ciociaro che parlava con il caratteristico accento e qualche vocabolo dialettale della sua terra natia, ragion per cui a volte il suo discorrere non era facilmente comprensibile. Era “frate turzone”. Con questo termine dialettale corese si intende un frate laico, cioè colui che veste l’abito, ma non ha preso i voti quindi non può officiare la Messa. Paradossalmente al significato dispregiativo che vuol dire anche persona poco capace, prestava con estrema abilità il suo lavoro nell’orto, come apicoltore ed era “specializzato” per la questua del vino che effettuava nel corso della “svinatura” di ottobre. Ma la qualità peculiare, per la quale era conosciutissimo in ogni parte d’Italia, era la capacità di curare la sciatica con il metodo empirico del salasso. Questa patologia, peraltro piuttosto diffusa, consiste nell’infiammazione del nervo sciatico, il più lungo del corpo umano, che si diparte dalla zona lombare fino ad arrivare alla caviglia. Il dolore si irradia dalla gamba nella parte posteriore, di solito solo da un lato, e nei casi più gravi impedisce la deambulazione. La metodica praticata da Fra’ Silvestro consisteva nel far fuoriuscire sangue da una vena (flebotomia) in prossimità del malleolo esterno della gamba affetta da sciatica tramite un taglio. Ci sono tracce di questa tecnica empirica fin dai tempi più remoti. Fu importata dai greci e dai frati Francescani dall’oriente ai tempi del medioevo ed ora è praticata anche da alcuni rappresentanti della classe medica. Indipendentemente dalle basi scientifiche che giustificano il successo terapeutico, il salasso praticato da Fra’ Silvestro dava ottimi risultati e gente che entrava claudicante usciva spesso completamente guarita…saltellando, giurando riconoscenza eterna al frate “guaritore”. Tuttavia ci potevano essere casi in cui il dolore non era dovuto ad una semplice sciatica, non sempre era possibile ottenere una guarigione ed il frate stesso anticipava al malato se era o no il caso di praticare il taglio, inoltre requisito indispensabile al successo del salasso era di non aver assunto alcun tipo di farmaco. C’è da aggiungere che non veniva chiesto in cambio alcun tipo di pagamento, ma solo un’offerta libera per il sostentamento del convento.

Padre Raffaele, oltre a celebrare la messa e le altre funzioni religiose, era un instancabile questuante. Nei primi anni dopo la guerra girava per il paese a piedi, sacco in spalla, calzando i sandali caratteristici dei francescani, senza calzini anche in pieno inverno. Negli anni successivi passava per la questua a cavallo dell’asino e poi finalmente riuscì a motorizzarsi con l’Ape, motoveicolo a tre ruote, depositando il fruttato della questua dietro il cassone. Era sempre ben accolto da tutti, credenti e non, dato che era una persona simpatica e gioviale e con il ricavo delle questua, oltre a sostenere il convento, si distribuivano pasti a chiunque ne avesse necessità, soprattutto nell’immediato dopoguerra data l’estrema povertà del momento, forse il più critico, vissuto dalla comunità corese. Amava il buon vino e a volte, allegrótto per qualche bicchiere in più, dimenticava i pezzi del rituale religioso. Ciò lo rendeva ancora più simpatico ed umano; in realtà, anche se un po’ smemorato, era una persona di notevole cultura tale da sapere il latino in maniera profonda. Conosceva a memoria tutte le “poste”, sapeva a chi, dove e cosa chiedere e in cambio del ricevuto donava il santino di S. Francesco. Proprio a questo riguardo si narra di lui un aneddoto divertente:

Padre Raffaele aveva quasi ultimato il suo giro questuante. La prima tappa era stata quella dal vinaio il quale gli aveva dato una damigiana di buon vino e lui in cambio il santino di S. Francesco. Poi era andato al frantoio ed aveva ricevuto un fiasco d’olio ed egli ovviamente offrì il santino, poi dal fornaio che regalò al frate una grossa pagnotta di pane….ed il frate gli diede il santino. Dal contadino ebbe frutta, verdura e patate…ed egli il solito santino. Finalmente uscendo dal paese per ritornarsene al convento passo a “precoio”. In corese con questo termine si intende il sito di campagna dove vivono i pastori con le greggi e dove lavorano il latte a ricavarne ricotte e formaggi. Si avvicinò al pastore e gli disse: – Buon pecoraio, hai qualcosa cosa da offrire per il convento di S. Francesco? – E comme no… te pòzzo dà na caciottella de caso… Il pastore entrò nella capanna prese una forma di cacio, ma ebbe un ripensamento. Gli sembrava troppo darla intera, dunque la tagliò, metà la tenne per sé e l’altra, uscendo dalla capanna, la offrì al frate. Padre Raffaele per tutta risposta prese il santino, lo strappò a metà e ne offri una sola parte al pastore che rimase perplesso davanti a quello strano gesto ed esclamò:
– Zi fra’ …ma che me dà méso santino?
– Embè !…figliolo caro, “méso cacio frisco… e méso S. Francisco”.
E cosi detto, senza scomporsi, prese la mezza caciotta e se ne tornò al convento.

[di Patrizia Carucci, amministratrice del gruppo “Còri mé bbéglio” e referente locale per l’Ecomuseo dell’Agro Pontino]

Una fotografia e un pensiero ricordando Pier Paolo Pasolini (di Tommaso Conti)

Tommaso Conti, sindaco di Cori dal 2007 al 2017, ha sempre manifestato un grande attaccamento e un legame profondo con il suo paese e la sua comunità. Lo ricordiamo in un intervento appassionato e appassionante durante una passeggiata di scoperta nel 2017 a Cori (fotografie in basso).
Recentemente ci ha regalato una breve riflessione che mostra una capacità notevole di “sentire” la vita della comunità. Una sensibilità che gli permette di richiamare, giustamente e con grande consapevolezza, la sensibilità di Pier Paolo Pasolini. Riportiamo la riflessione di Tommaso Conti, davvero preziosa per avere una testimonianza dell’ottica in cui dovrebbe muoversi sempre un Ecomuseo. E riportiamo anche la fotografia che ha ispirato la riflessione dell’ex-sindaco di Cori.

Sisto e Caterina

«Ieri due amici di vecchia data, un uomo e una donna, tra gli ottanta e i novanta anni, in piedi su un bastone ma ancora dritti e dignitosi, si sono incontrati, amici di lavoro, di fatica, di comunione di sentimenti, di lotta, di sudore e di allegria e mentre ridevano tra la curiosità dei passanti, ho capito questi versi di Pasolini…

attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza. È la forza originaria
dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza e nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…

Da Pier Paolo a voi, Cesarina e Sisto…».

Ringraziamo Tommaso Conti per la poesia. La sua e quella di Pasolini.

Tommaso Conti con Francesco Tetro, Antonio Saccoccio, Angelo Valerio, Felice Calvani e il gruppo dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino durante la visita alla città di Cori (19 marzo 2017)
Tommaso Conti con Angelo Valerio e il gruppo dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino (Cori, marzo 2017)


Jo concone (di Patrizia Carucci)

Fino ai primi anni del secondo dopoguerra le abitazioni, soprattutto nei paesi rurali, erano prive di fornitura idrica, dunque era indispensabile recarsi quotidianamente ad attingere acqua dalle fontane dislocate nei vari punti del paese. A svolgere questa essenziale mansione erano le donne che, con un rituale quotidiano, portavano in casa l’acqua necessaria all’uso domestico grazie ad un contenitore, una conca dalla forma particolare e caratteristica chiamata in dialetto corese “jo concóne”. Questo utensile, oramai desueto, è stato quindi un oggetto essenziale nella quotidianità casalinga delle generazioni che ci hanno preceduto. Rigorosamente fatto di rame, ha una forma che ricorda quella di una clessidra tagliata nella parte alta, cioè con una pancia molto ampia della capienza di circa 10 litri, un collo stretto, per non far fuoriuscire l’acqua durante il trasporto, da cui si allarga e si solleva una tesa a forma di scodella la quale permette di raccogliere facilmente l’acqua dal getto scomposto della fontana. Jo concone lepino, e laziale più in generale, è bellissimo perché ha una forma slanciata ed elegante e i manici posti sui lati al centro sono attorcigliati, mentre quello abruzzese è più tarchiato con maniglie semplici.

C’è da dire che in passato, oltre a jo concone, gli accessori di rame, teglie (i soi), mestolo (jo scolemaréglio), scolapasta e addirittura lo scaldaletto (jo scallalétto, cioè un contenitore con un lungo manico dove venivano messe delle braci e poi passato sul letto per scaldarlo) facevano parte del corredo della sposa insieme al mobilio e alla biancheria.

Sul concone veniva spesso fatto incidere il nome della proprietaria, ovviamente per non confonderlo con quello delle altre, dato che erano tutti simili. Questo perché quando si andava alla fontana si doveva fare a volte una lunga fila per attingere l’acqua. Spesso il posto usurpato era causa di accesi litigi, così si lasciavano i “concuni” come segnaposto mentre si andava a fare altre cose, insomma una sorta di numeretto che usiamo noi oggi per le file negli uffici pubblici. Una volta riempito jo concone, le donne attorcigliavano un pezzo di stoffa, facevano cioè la “coroglia” una specie di ammortizzatore, che si posava sulla testa e sollevando jo concone ve lo poggiavano portandolo in equilibrio sul capo fino a casa.

Nel 1936 il governo fascista istituí la campagna “ORO ALLA PATRIA” per finanziare le guerre coloniali, cioè chiese al popolo la donazione volontaria di monili d’oro, fedi nuziali e del rame. Si racconta che gli utensili di rame vennero raccolti sul sagrato di Sant’Oliva che alla fine fu letteralmente ricoperto di concuni, sói, scallalétti, scolapaste donati dalle donne coresi e quant’altro si poteva trovare di quel metallo. La scena mi venne descritta più volte da mio padre che, giovinetto in quegli anni, ne rimase colpito e meravigliato.

Ora jo concóne ha perso ovviamente la sua principale destinazione d’uso e ne ha acquisita un’altra. Chi, come me, lo possiede ancora perché ereditato da nonne e mamme, lo usa come oggetto decorativo. Il mio fa da porta vaso e l’ho avuto da mia madre che a sua volta lo ha ereditato dalla sua, c’è infatti inciso il nome di mia nonna… LEONISIA (nella foto) ed è il ricordo di un passato sparito, ma non troppo lontano. A volte guardandolo rifletto su quanta acqua avrà trasportato dalla fontana a nasone di via San Nicola, dove mia nonna abitava, e alla grande fatica che anche mia madre, fanciulla negli anni del dopoguerra, ha dovuto fare per assicurare l’acqua per le necessità domestiche di tutta la famiglia. Perciò mi consolo quando vado a pagare la bolletta di AcquaLatina pensando che siano… soldi ben spesi!!

Patrizia Carucci

Concone di Patrizia Carucci, ereditato dalla nonna paterna, riadattato a portaombrelli con una base circolare di ferro
Concone di Maria Paola Moroni, ricevuto in dono da sua suocera, che lo aveva a sua volta ereditato dalla madre

Si ringrazia Patrizia Carucci e il gruppo Cori mè beglio, da cui provengono queste informazioni.