Archivi tag: acqua

La forma della malingonia (due poesie di Dante Ceccarini)

«Che forma ha la malinconia?
Difficile dirlo, ma la risposta che mi sono dato è che ha quella dell’acqua, quindi del recipiente che la contiene. Non riesce a riempire una parte più di un’altra, perciò ha ogni forma e nessuna forma.
Il titolo di questa mia prima raccolta di poesie, in dialetto sermonetano tradotto a margine in lingua italiana, mi venne in mente leggendo il primo episodio (del 1994) della serie di Montalbano, scritta da Andrea Camilleri, dal titolo: La forma dell’acqua.
L’acqua penetra, infradicia, intride gli angoli più nascosti, così come fa la malinconia: raggiunge, rinfresca, ristoria le più recondite pieghe dell’anima. Tuttavia, questa forma di malinconia non è angosciante, ma è dolce e zuccherosa come una mammella che allatta il neonato, calda e comoda come una ciabatta indossata d’inverno, refrigerante come una brezza di vento d’estate».
Con queste parole Dante Ceccarini, recentemente premiato alla terza edizione del Premio letterario Antonio Campoli, presenta la sua raccolta di poesie intitolata La forma della malingonia (2017). Sono 32 poesie in dialetto sermonetano in cui prevale un tono molto intimo, a tratti religioso, esistenziale. Non solo malinconia: tempo e memoria, sogni e sorrisi, inquietudini, solitudini, elevazioni. Proponiamo qui di seguito due poesie dedicate al tema centrale della raccolta. Chissà se nell’individuare la forma della malinconia nell’acqua abbia esercitato una qualche influenza aver vissuto a stretto contatto con il paesaggio dell’Agro Pontino, così fortemente condizionato dalle acque…

La forma della malingonia

Che forma tè la malingonia?
Tè la forma dell’acqua,
s’adatta aglio contenitore
che la contiene,
ppiù ‘na parte rispetto a ‘nn’atra
non jémpe,
ma négli pizzi ppiù nascosti e rabbelati
degl’annimo téo
se ‘nzinua,
te pervade
te spassa
te ‘nvonne
te fracica a funno,
dapettutto,
la ‘ndossi
comme ‘no carzino de lana quanno è anvèrno,
è
‘n’alito frisco de vendo quanno l’estate vomita sole,
‘na pantofola commoda e sformata,
‘n’addore de pane appena sfornato,
‘na zzinna zuccarosa che zzinna,
‘no bbacio de màtroma quanno ero mammoccio,
‘na mano che ppe’ mmano te piglia e te ninna.

Allitterazzione della malingonia

Colènno e percolènno
liéve comme lacrema
la malingonia
non tolle stelle
daglio celo
ma le allatta
co’ llatte triste.
e non se ne dòle.
Anzi co’ ésse se culla.

(Poesia vincitrice del Premio Vincenzo Scarpellino 2017)

Jo concone (di Patrizia Carucci)

Fino ai primi anni del secondo dopoguerra le abitazioni, soprattutto nei paesi rurali, erano prive di fornitura idrica, dunque era indispensabile recarsi quotidianamente ad attingere acqua dalle fontane dislocate nei vari punti del paese. A svolgere questa essenziale mansione erano le donne che, con un rituale quotidiano, portavano in casa l’acqua necessaria all’uso domestico grazie ad un contenitore, una conca dalla forma particolare e caratteristica chiamata in dialetto corese “jo concóne”. Questo utensile, oramai desueto, è stato quindi un oggetto essenziale nella quotidianità casalinga delle generazioni che ci hanno preceduto. Rigorosamente fatto di rame, ha una forma che ricorda quella di una clessidra tagliata nella parte alta, cioè con una pancia molto ampia della capienza di circa 10 litri, un collo stretto, per non far fuoriuscire l’acqua durante il trasporto, da cui si allarga e si solleva una tesa a forma di scodella la quale permette di raccogliere facilmente l’acqua dal getto scomposto della fontana. Jo concone lepino, e laziale più in generale, è bellissimo perché ha una forma slanciata ed elegante e i manici posti sui lati al centro sono attorcigliati, mentre quello abruzzese è più tarchiato con maniglie semplici.

C’è da dire che in passato, oltre a jo concone, gli accessori di rame, teglie (i soi), mestolo (jo scolemaréglio), scolapasta e addirittura lo scaldaletto (jo scallalétto, cioè un contenitore con un lungo manico dove venivano messe delle braci e poi passato sul letto per scaldarlo) facevano parte del corredo della sposa insieme al mobilio e alla biancheria.

Sul concone veniva spesso fatto incidere il nome della proprietaria, ovviamente per non confonderlo con quello delle altre, dato che erano tutti simili. Questo perché quando si andava alla fontana si doveva fare a volte una lunga fila per attingere l’acqua. Spesso il posto usurpato era causa di accesi litigi, così si lasciavano i “concuni” come segnaposto mentre si andava a fare altre cose, insomma una sorta di numeretto che usiamo noi oggi per le file negli uffici pubblici. Una volta riempito jo concone, le donne attorcigliavano un pezzo di stoffa, facevano cioè la “coroglia” una specie di ammortizzatore, che si posava sulla testa e sollevando jo concone ve lo poggiavano portandolo in equilibrio sul capo fino a casa.

Nel 1936 il governo fascista istituí la campagna “ORO ALLA PATRIA” per finanziare le guerre coloniali, cioè chiese al popolo la donazione volontaria di monili d’oro, fedi nuziali e del rame. Si racconta che gli utensili di rame vennero raccolti sul sagrato di Sant’Oliva che alla fine fu letteralmente ricoperto di concuni, sói, scallalétti, scolapaste donati dalle donne coresi e quant’altro si poteva trovare di quel metallo. La scena mi venne descritta più volte da mio padre che, giovinetto in quegli anni, ne rimase colpito e meravigliato.

Ora jo concóne ha perso ovviamente la sua principale destinazione d’uso e ne ha acquisita un’altra. Chi, come me, lo possiede ancora perché ereditato da nonne e mamme, lo usa come oggetto decorativo. Il mio fa da porta vaso e l’ho avuto da mia madre che a sua volta lo ha ereditato dalla sua, c’è infatti inciso il nome di mia nonna… LEONISIA (nella foto) ed è il ricordo di un passato sparito, ma non troppo lontano. A volte guardandolo rifletto su quanta acqua avrà trasportato dalla fontana a nasone di via San Nicola, dove mia nonna abitava, e alla grande fatica che anche mia madre, fanciulla negli anni del dopoguerra, ha dovuto fare per assicurare l’acqua per le necessità domestiche di tutta la famiglia. Perciò mi consolo quando vado a pagare la bolletta di AcquaLatina pensando che siano… soldi ben spesi!!

Patrizia Carucci

Concone di Patrizia Carucci, ereditato dalla nonna paterna, riadattato a portaombrelli con una base circolare di ferro
Concone di Maria Paola Moroni, ricevuto in dono da sua suocera, che lo aveva a sua volta ereditato dalla madre

Si ringrazia Patrizia Carucci e il gruppo Cori mè beglio, da cui provengono queste informazioni.