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Quei falò in Agro Pontino che vengono dal Veneto

Durante la serata del 5 gennaio tra le campagne e i borghi dell’Agro Pontino siamo portati a ricordare le origini settentrionali di tante famiglie locali. La pianura si arricchisce di presenze insolite: cumuli di paglia e rami con in cima fantocci.

I “cispadani” trapiantati in Agro Pontino portarono la tradizione di bruciare la vecchia (la “vecia”) posta su un cumulo di paglia e rami secchi, durante la vigilia dell’Epifania. Oggi ancora capita che tanti cittadini giunti a Latina da altre zone d’Italia (specie del sud) si interroghino sul perché di questo rito propiziatorio, che ha origini pagane, pre-cristiane, e sta a simboleggiare il passato, l’anno vecchio che cede il passo al nuovo. I veneti e i friulani continuano da due, tre generazioni a bruciare la vecchia in Agro Pontino. E i pontini hanno imparato ormai da tempo a condividere con loro quell’usanza.
Ieri si poteva ammirare un fantoccio in cima a un grande pagliaio alla rotonda della Chiesuola, dove la comunità da diversi anni organizza i festeggiamenti della Befana.

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Un’altra vecia è stata bruciata nel podere che ospita la Piccola Fattoria di Sermoneta, in via della Bonifica (zona Piazzalunga), in cima a un cumulo di rami secchi d’ulivo, appena potati. Qui la famiglia Lucietto, di origini venete, non ha mai perso l’abitudine di costruire un falò per la Befana, abitudine che ha contaminato anche i pontini imparentatisi con loro (i Pompili). Il festeggiamento è stato organizzato con il consueto entusiasmo per i tanti bambini che sono soliti frequentare la fattoria didattica: giochi all’aperto in compagnia degli animali, piccolo spettacolo teatrale nello spazio interno, arrivo della Befana che ha consegnato le calze, cucite a mano, alle bimbe e ai bimbi, falò (con il fantoccio che ha regalato un brivido, prendendo fuoco solo all’ultima scintilla), brindisi finale. Questa famiglia veneto-pontina ci tiene ancora a riunire la comunità attorno a un gioco, per costruire un falò, per non ridurre anche la befana alla banale corsa all’acquisto forsennato, per non dimenticare da dove veniamo e pensare a dove vogliamo andare. Forse è anche per questo che ieri ci si è ricordati di servire, accanto a torte, biscotti e ciambelline, un’ottima bevanda portata in Agro Pontino proprio dai cispadani: il vin brulè.

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Adriana Vitali Veronese racconta i suoi primi 80 anni all’Ecomuseo dell’Agro Pontino

Io sono una giovane ottantenne. Incominciamo così, perché il prossimo anno compirò 80 anni. Sono nata qui, in questa città. Non risulto nata a Littoria, per il semplice motivo che non c’era l’ospedale e mia madre è dovuta andare a Velletri, perché gravitava tutto su Velletri. Però, nata lì, arrivata qui. Con Velletri nulla a che spartire, perché sono di origine tosco-veneta. Mio padre è venuto diciottenne a Littoria, da Pisa, da Villa Saletta, casa molto bella, Spirito d’avventura. Prende la bicicletta e naturalmente con la disapprovazione dei genitori viene in bicicletta qui, appena bonificato il territorio. Mia madre, veneta, di Treviso, arrivata con il gruppo familiare da Treviso, il primo gruppo di trevisani, perché a mio nonno, ex combattente della grande guerra, nell’opera nazionale combattenti, avevano assegnato un podere. Mio nonno aveva combattuto su vari fronti, conobbe il re, felicissimo “io ho conosciuto il re, mi ha stretto la mano”. Mio nonno radunò la famiglia, piuttosto numerosa, due maschi già sposati, due scapoli, le nuore, mia madre e la sorella. Una famigliola. E vennero giù. Scesero a Cisterna di Roma, perché non c’era ancora la stazione di Littoria. E, come raccontano nelle fantasie (che non sono proprio fantasie), ognuno scese con quel po’ di bagaglio che poteva portare. Mia madre, bella veneta, bella treccia dietro la nuca, capelli lunghi, portava sotto il braccio l’antica sveglia dei bisnonni, che ho ancora a casa funzionante. Ammirazione di tutti gli autoctoni, ancora magari con le pelli ovine sulle cosce e le ciocie ai piedi, le donne con i gonnoni lunghi e il fazzolettone in testa… Mia madre suscitò subito scandalo, scese in tailleur attillato, gonna a ginocchio, mostrava le gambe, fazzolettino di pizzo nel taschino, scarpine con il cinturino, le calze trasparenti, la borsetta in tinta con le scarpe. Suscitò meraviglia e scandalo: “Chi è questa? Come osa?”. I giovanotti incuriositi. Mio padre si innamorò di mia madre. Per farla breve, si conobbero e si sposarono. E sono nata io, nel 1935. E tutta la mia vita io l’ho trascorsa qui, in questo territorio. Ho visto crescere la città, ho visto costruire i palazzi. Mi affacciavo al terrazzo, al quartiere Nicolosi, perché non era che c’era molto in quella zona…

(Adriana Vitali Veronese, Latina, 24 Febbraio 2014)

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